Che gioiello l’intervista di Donatella Coccoli a Emilio Gentile per Left (la trovate qui):
Non ha affatto paura di Donald Trump il professor Emilio Gentile, anche perché aveva previsto il successo del candidato repubblicano. Anzi, alla fine della telefonata si lascia andare anche a una battuta. «Mi merito anche un piccolo premio Nobel per la profezia azzeccata», dice sorridendo. In effetti, lo storico noto a livello internazionale per i suoi studi sul fascismo, è autore di un libro fondamentale per comprendere la vera natura degli Stati Uniti (La democrazia di Dio, Laterza) in cui mette in evidenza la profonda religiosità degli americani che hanno addirittura nella loro moneta la frase “in God we trust”. Negli ultimi anni Gentile ha analizzato il rapporto tra leader e cittadini (Il capo e le folle, Laterza), e i cambiamenti della democrazia occidentale.
Professor Gentile, lei nel suo ultimo libro In democrazia il popolo è sovrano. Falso! per Laterza, parla di come oggi la democrazia sia diventata sempre più “recitativa”, con il capo che “ci mette la faccia”. Che cosa pensa della elezione alla Casa Bianca di Donald Trump?
Confesso che per me non è stata una sorpresa perché avevo immaginato che i motivi agitati da Trump fossero gli stessi che toccavano moltissimi americani. Sono tutti quei cittadini che non avevano il coraggio di dichiarare apertamente di votare per il candidato repubblicano e hanno dichiarato di votare per Clinton. Forse si sono vergognati di dire apertamente di accettare un candidato che tutta la stampa più autorevole e importante, tutti i canali televisivi e persino lo stesso presidente in carica consideravano un cialtrone o un pericoloso avventuriero, o peggio ancora, uno che rischiava di mettere in pericolo la pace nel mondo. È probabile che dietro a questo voto ci sia stato un risentimento per l’amministrazione di Clinton, per le stesse guerre di Bush e infine la delusione per il presidente Obama.
Chi sono gli elettori di Trump?
È la classe media degli stati centrali che soffre di più della globalizzazione e della riduzione dei salari che ha reso inadeguata la capacità di potere d’acquisto negli ultimi 35-40 anni. Per questo motivo gli americani a un certo punto hanno visto in Trump qualcuno che fosse disposto a gridare contro tutto questo. Senza che dall’altra parte ci fosse un candidato che desse veramente l’assicurazione di cambiare.
Probabilmente un personaggio come Sanders con la sua retorica più confacente ai deboli, ai disperati, avrebbe reso più faticosa l’ascesa di Trump. C’è una cosa che mi ha sorpreso, però.
Che cosa professore?
Il tema della “democrazia recitativa” andrebbe rivisto alla luce di due risultati di queste elezioni. Intanto per la seconda volta perde una candidata che ha il maggior sostegno del maggior partito, che ha il sostegno del presidente uscente, che ha speso un miliardo e 300mila dollari, cioè ha fatto una campagna in cui si è dimostrato che il denaro non sempre garantisce una vittoria. E soprattutto l’altro risultato è il fatto che Trump ha combattuto contro il suo partito. Questo è davvero un fenomeno nuovo. Non ricordo, almeno nel secolo scorso, casi simili. Sì, ci sono stati alcuni presidenti che non erano quelli che il partito desiderava ma non si è mai verificato che un candidato venisse squalificato dal suo stesso partito come è avvenuto in queste elezioni.
E che cosa significa?
È ormai la conferma della tendenza a stabilire un rapporto diretto e quasi personale tra il capo e la folla e a scavalcare le strutture tradizionali. Il capo che sa intuire gli orientamenti della collettività in agitazione. Tra l’altro, è interessante che lui parli di movimento. Anzi, ha suscitato un movimento, è questo che tra l’altro ha detto nel suo discorso.
Quindi anche la forma partito viene meno?
Certo, Trump ha vinto contro il suo partito! Quest’uomo, sostanzialmente dall’esterno, ha conquistato il partito. Qualcosa di molto simile a quello che ha fatto Renzi nel Pd. Quindi si sta verificando ormai – e io posso pensare di essere stato tristemente profetico nel Il Capo e la folla – che la democrazia intesa come un complesso processo che si avvale di stadi intermedi per arrivare a rendere sovrano il popolo attraverso i suoi rappresentanti viene scavalcato da questo rapporto diretto tra un popolo che non si sa che orientamento ha, ma è pur sempre il popolo. Una mia amica americana mi ha detto che il popolo non è sovrano: eh no, questo è il popolo sovrano, solo che il popolo non sempre sceglie come noi vorremmo. Ma quando sceglie, lo fa sovranamente. In questo caso contro il partito, un presidente in carica, contro una candidata fortissima che per la seconda volta viene data per vincente e che ha impiegato una somma di denaro notevolissima. Da questo punto di vista tutte le nostre categorie razionali per spiegare fenomeni come questi saltano completamente.
Che cosa ha determinato la vittoria di Trump? La paura del ceto medio, la progressiva povertà?La paura, e dall’altra parte anche una volontà di riscatto. Lui ha agito come ha fatto Regan dopo Carter. E in questo caso Obama è stato visto come un presidente che ha reso quasi assente l’America oppure l’ha lasciata in balìa a un corso storico che ha visto emergere altre grandi potenze.
Però, come fa notare lei, se ci fosse stato Sanders…
Di fronte a una questione sociale molto forte come quella vissuta dagli Usa adesso, la carta da giocare era quella di Sanders.
È una lezione per la sinistra che non deve abbandonare il proprio popolo?
Questo dovrebbe essere fondamentale. Ormai il problema della sinistra non è più quello di pensare a un popolo inteso come un proletariato ma a tutti coloro che oggi vengono privati della possibilità di essere cittadini. Oggi il tema fondamentale non è la distinzione tra destra e sinistra, ma la nostra costituzione che almeno nei principi che nessuno dice di voler toccare, parla della Repubblica fondata sul lavoro, dove i lavoratori sono tutti coloro che hanno la dignità di poter essere dei liberi cittadini. È questo che ha travolto l’America, loro si sentono sempre meno cittadini. Da questo punto di vista Trump è un uomo di destra che ha usato un linguaggio di sinistra e per questo è stato riconosciuto negli Stati dove ci sono le classi operaie, come la Pennsylvania che ha sempre votato democratico.
Senta professore, ma lei è preoccupato per l’elezione di Trump?
Io sinceramente, pensando al caso di Nixon o di Regan – forse più Nixon – ritengo che i presidenti che si presentano con una faccia trucida, con messaggi violenti, sono quelli che, adattandosi al realismo, riescono poi a fare delle scelte che un presidente di sinistra non può fare. Ad esempio, il discorso dopo la vittoria ha fatto fa vedere un altro Trump. Molto cavalleresco nei confronti di Hilary Clinton, il che è una cosa straordinaria. Ha anche detto che non sarà contro nessuno e cercherà un accordo con tutti. Non ha usato nessuna metafora di tipo aggressivo, polemico, razzista, addirittura ha detto che tutti devono unirsi al di là della razza o della religione. Certo, è un po’ tipico degli americani fare il presidente di tutti, però vedremo quanto farà, tenendo conto anche del fatto che possiede un potere che Obama non ha, avendo tutto il congresso repubblicano. Una cosa è sicura, poi. Lui non è stato protetto dalla destra religiosa, non è molto amato anche perché non rappresenta un esempio illuminante dal punto di vista della morale. Comunque rispondendo alla domanda, non ho paura, perché la paura viene dalle cose impreviste. Questa era prevista.