Persone di cui tenere il nome in tasca: Roberto Cornelli, professore di Criminologia, ex sindaco di Cormano e ex Segretario di Milano Città Metropolitana per il PD. Ecco cosa scrive sulla questione milanese (di eserciti, violenza e tutto il resto):
«Un’avvertenza in premessa: sono discorsi difficili, forse non adeguati al mezzo che sto usando. Ma se non si prova a farli anche qui (oltre che nelle aule universitarie e nelle sedi scientifiche internazionali) temo che si perda un’occasione.
Nelle metropoli talvolta capita che ci si uccida, all’incrocio di una strada come tra i muri di casa. A Milano capita molto più raramente che in altre metropoli d’Europa e del mondo. Ma quando capita la tragedia irrompe, travolgendo chi ne è coinvolto, i familiari, gli amici e la società intera, che rimane scossa dalla propria vulnerabilità e per la propria impotenza.
Che fare? Innanzitutto, ci si deve capire qualcosa di ciò che sta accadendo, e la tragedia, per essere comprensibile, deve avere un senso rispetto alla vita che quotidianamente conduciamo.
Ma che senso può avere per tutti noi l’uccisione di un uomo ad opera di un altro uomo?
Sono convinto che un omicidio che accade sia capace di scuotere profondamente le nostre fondamenta sociali, riportandoci ogni volta a temere ciascun altro come un potenziale nemico. Da qui la ricorrente richiesta di aumentare le protezioni, di moltiplicare i presidi di controllo, di militarizzare il territorio, di ritenere sicuro solo il mio spazio personale privatizzato.
Sono convinto però che un omicidio che accade possa spingerci anche a riflettere sul fatto che nella storia, quella vicina e quella lontana, gli uomini hanno smesso di uccidersi tra loro quando hanno iniziato a collaborare e, collaborando, a imparare sempre nuove modalità di relazionarsi con gli altri che prescindessero dall’uso della violenza. E’ un po’ come quando i bambini in età prescolare apprendono a convivere senza aggredirsi fisicamente, con drammi e fatiche immense (loro e di quelli che stanno loro intorno), e alla fine moltissimi ce la fanno. Gli uomini hanno iniziato a uccidersi sempre meno tra loro quando hanno imparato a stare in società quando gli atteggiamenti che hanno adottato e le istituzioni che si sono dati hanno potenziato il rispetto reciproco (non a caso nelle democrazie consolidate il tasso di omicidi è mediamente più basso).
Così, l’omicidio che accade entra in un’altra trama di significati, in cui proprio la paura di ripiombare in società violente ci spinge a ridare valore a un progetto di società che vede nell’affermazione della dignità di ogni persona un ancoraggio saldo per evitare che le tragedie diventino normalità.
Evidentemente non ho parlato di politiche di sicurezza, ma ritengo che sia proprio a partire da questa opzione culturale che si possa provare a reagire alle emergenze con progetti strutturati ed evitando di ricorrere sempre e solo a “sedativi sociali”, tanto facili quanto spesso inefficaci.
Sintesi per la stampa: la richiesta dell’esercito è un sedativo sociale, in grado di rassicurare sul brevissimo periodo e a dosi minime (se non diventa cioè una richiesta ricorrente). Per il resto (per ridurre la violenza o assicurare alla giustizia gli autori) serve a ben poco. Può essere addirittura dannoso se concepito come LA soluzione.»