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Lo scrittore Mathias Énard: «sulla Siria siamo i portinai della viltà»

(di Mathias Énard, dal volume collettivo Bienvenue ! 34 auteurs pour les réfugiéstraduzione di Lorenzo Alunni, fonte)

Sapevamo che quello del Ba’ath siriano era un regime tossico, di assassini e torturatori: l’abbiamo tollerato.

Abbiamo fatto addirittura di più: l’abbiamo rafforzato. Bashar al-Assad veniva invitato a sedersi nella tribuna presidenziale per la sfilata del 14 luglio, a Parigi, a pochi metri da Nicolas Sarkozy, che gli ha calorosamente stretto la mano due anni prima dell’inizio delle manifestazioni a Dera’a.

Sapevamo tutti che il regime di Assad era pronto a massacrare senza esitazioni la sua popolazione civile e quella dei suoi vicini: gli eventi del 1982 noti come «massacro di Hama» (ma che si sarebbero estesi a molte altre città siriane) e i soprusi siriani nei confronti del Libano ce l’hanno dimostrato a sufficienza. L’abbiamo tollerato.

Sapevamo che l’esercito siriano e i suoi sicari, che hanno organizzato la repressione per decenni, non avrebbero esitato un istante a sparare sulla folla, a torturare oppositori, a bombardare città e villaggi: li abbiamo lasciati fare.

Sapevamo che il regime siriano era diventato maestro dell’arte della manipolazione diplomatica regionale, abile a rafforzare temporaneamente i propri nemici, a infiltrarvisi, portando avanti un terribile doppio gioco letale: lo ha dimostrato la storia delle relazioni della Siria con i diversi gruppi palestinesi. È solo un esempio fra i tanti possibili. Li abbiamo dimenticati tutti, questi esempi, o abbiamo fatto finta di dimenticarli.

Sapevamo che tutte le figure politiche siriane non sono altro che una clientela di sicari che sopravvive grazie al sistema dei clan e alle elargizioni della casta Assad. Eppure abbiamo sperato nel cambiamento. Eravamo tutti al corrente che, nella così breve Primavera di Damasco del 2000, i club della democrazia erano stati repressi, che i nuovi leader si erano improvvisamente ritrovati in prigione o che erano stati costretti a lasciare il Paese. Ci siamo rassegnati.

Abbiamo immaginato che l’apertura economica avrebbe portato a un’apertura democratica. Abbiamo visto con chiarezza come tale apertura servisse solamente a distribuire nuovi guadagni per attirare nuovi clienti e rafforzare il clan al potere. Abbiamo venduto auto, tecnologia e fabbriche chiavi in mano, senza il minimo turbamento.

Sapevamo delle faglie che attraversano il territorio siriano; non ignoravamo che il regime di Assad si reggesse essenzialmente sulla minoranza alauita, soprattutto per il suo apparato militare e repressivo; sapevamo della sua alleanza strategica con l’Iran, che risale alla guerra fra Iran e Iraq e alla guerra del Libano, negli anni Ottanta; eravamo testimoni della potenza militare e politica dell’Hezbollah libanese; abbiamo assistito alla strumentalizzazione dei Curdi nelle relazioni fra la Siria e la Turchia nel corso degli ultimi trent’anni: sapevamo di tutto il risentimento dei sunniti siriani poveri, esclusi dal clientelismo e odiati dalle loro stesse élites; avevamo coscienza del peso dell’Arabia Saudita e del Qatar nell’economia europea e della «guerra fredda» che queste due potenze fanno da anni all’Iran.

Ci ricordiamo – o ci dovremmo ricordare – che la mappa del Medio Oriente del XX secolo è nata da accordi segreti firmati da Mark Sykes e François Georges-Picot nel 1916, o piuttosto dalle conseguenze di questi accordi e dalla loro attuazione fra il 1918 e il 1925. Il Libano, la Siria, l’Iraq, la (Trans)Giordania e la Palestina sono nate da queste frontiere, quasi cento anni fa, e da allora tali frontiere sono state messe in discussione direttamente solo una volta, quando la scorsa estate l’Isis ha riunito le province dell’ovest dell’Iraq e quelle del nord e dell’est della Siria, facendo improvvisamente tremare tutte le altre frontiere, in particolare quelle della Giordania e dell’Arabia Saudita.

Sapevamo che il Libano è un Paese fragile, un Paese di cui alcune componenti desideravano la ridefinizione (o l’implosione) geografica e la trasformazione del territorio in una confederazione, per «proteggere le minoranze». I Balcani ci hanno insegnato che nessuno desidera essere una minoranza sul territorio dell’altro quando l’impero sta crollando. Sapevamo inoltre che l’invasione – la distruzione totale – dello Stato iracheno ha portato all’ingiustizia, alla corruzione, all’insicurezza, alla carestia e al crollo dei servizi pubblici.

Da tutto questo, non abbiamo tratto nessuna conclusione.

Quando le manifestazioni si sono trasformate in rivolta, quando la rivolta è diventata rivoluzione, quando le prime granate sono cadute sui civili, quando la rivoluzione si è trasformata in Esercito Siriano Libero, non abbiamo fatto niente.

Sapevamo perfettamente che la soluzione al «problema siriano» e la risposta alla «questione siriana» passava per Mosca e Teheran, e non siamo voluti andare a Mosca né a Teheran.

Abbiamo detto di sostenere i democratici.

Abbiamo mentito.

Abbiamo lasciato morire l’Esercito Siriano Libero e tutte le forze di libertà.

Abbiamo dibattuto del numero di morti.

Abbiamo dibattuto di linee rosse, piazzate da noi, per poi spostarle perché non eravamo sicuri che fossero state realmente superate.

Abbiamo dibattuto del colore della bava nella bocca dei cadaveri.

Abbiamo detto di sostenere le forze democratiche.

Abbiamo mentito.

Abbiamo organizzato conferenze nei palazzi europei.

Lì, abbiamo visto i documenti in mano all’Arabia Saudita, al Qatar e alla Turchia.

Abbiamo continuato a mentire.

Dibattiamo tutti i giorni del numero di morti.

Abbiamo guardato fiorire le tende in Turchia, in Giordania, in Libano.

Contavamo tutti i giorni le tende.

Stanchi di contare i corpi mutilati, ci siamo compiaciuti per il miglioramento delle condizioni di vita dei rifugiati.

Abbiamo visto uomini sgozzati nel deserto, uomini su cui non abbiamo fatto affidamento.

Ci siamo indignati e la nostra indignazione si è trasformata in bombe e attacchi aerei.

Dibattiamo tutti i giorni dell’efficacia delle bombe.

Contiamo i morti e le tende.

Vendiamo aerei.

Impariamo nomi di città, impariamo nomi di città distrutte non appena ne abbiamo imparato il nome.

Mentiamo.

Siamo i geografi della morte.

Gli esploratori della distruzione.

Siamo portinai.

Portinai alla porta della tristezza.

Ogni giorno si bussa alle nostre porte.

Contiamo i colpi alle nostre porte.

Uno dice che «centomila persone bussano alle nostre porte».

L’altro dice che «sono milioni, e spingono».

Spingono per venire a cagare di fronte alle nostre porte chiuse.

Siamo i portinai della viltà.

Non accogliamo nessuno.

Non ci chiniamo davanti a nessuno.

Siamo fieri di non essere nessuno.