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«La mafia è dappertutto». Falso!

Francesco Viganò sul libro di Costantino Visconti (che trovate qui)

1. Un libricino prezioso, questo di Costantino Visconti, inserito in una bella collana di Laterza dedicata agli idòla baconiani. Ai luoghi comuni e agli slogan di cui si nutre la comunicazione politica, ai messaggi che ‘bucano’ in televisione; e alla loro discussione e confutazione con le armi della ragione.

Qui il luogo comune è la pretesa onnipotenza – pervasiva e tentacolare – della mafia nel nostro paese. Un luogo comune alimentato da una certa cultura (e una certa politica) dell’antimafia, funzionale in definitiva a legittimare sempre nuovi strappi alle regole e ai principi dello stato di diritto, in nome di una lotta senza quartiere contro avversari percepiti più come nemici dell’intero ordinamento, che non come criminali. Pericolosi quanto si vuole: ma nemmeno così straordinariamente astuti e intelligenti, come la letteratura e il cinema amano presentarceli.

 

2. L’autore ha le carte in regola per parlare non solo di mafia, ma anche di contrasto alla mafia, avendo dedicato buona parte della sua produzione scientifica a queste tematiche, da vent’anni a questa parte; e avendo, soprattutto, affrontato questi temi non già con lo sguardo asettico dello studioso puro di diritto che si limita a confrontarsi con i principi e i dati normativi, quanto piuttosto con l’avida curiosità di chi – dall’angolo visuale privilegiato di un professore non coinvolto in prima linea nella difesa di alcun imputato – vuole anzitutto comprendere la realtà: fatta di fascicoli processuali, di strategie giudiziarie (delle procure e della stessa magistratura giudicante), ma anche di vicende personali di iimputati eccellenti e di perfetti sconosciuti, di imprese colpite da interdittive antimafia o sottoposte ad amministrazioni giudiziarie, di montagne di beni confiscati e sequestrati non sempre gestiti con la doverosa dose di imparzialità da parte di chi ne aveva la responsabilità. Il tutto muovendo da un passato personale – dichiarato sin da subito al lettore – di esponente dell’antimafia civile palermitana, sin dai tempi dell’università: quando a Palermo si moriva davvero, di mafia.

 

3. Il frutto – necessariamente provvisorio – di questi anni di impegno e di studio è una riflessione disincantata, eppure ancora appassionata, sul senso della battaglia contro la mafia oggi.

Una riflessione che muove – paradossalmente, ma non troppo – dall’affermazione che l’antimafia si è fatta potere, e che come tutti i poteri anch’essa ha bisogno di controllo, e di “controcanto critico”.

Il riferimento polemico non è soltanto agli illeciti asseritamente commessi da taluno in nome dell’antimafia, illeciti contro i quali per fortuna la stessa magistratura ha mostrato di possedere tutti gli anticorpi necessari per reagire; ma è anche alla tentazione di invocare e praticare un uso sempre più massiccio dell’arsenale penalistico, o di strumenti paralleli non meno temibili – dalle misure di prevenzione alle misure amministrative antimafia, in grado di decretare la morte civile di imprese o l’azzeramento di interi corpi politici democraticamente eletti –, al di fuori di una logica di stretta necessità e proporzione rispetto alle pur sacrosante finalità perseguite.

 

4. Sul fronte propriamente penalistico, Visconti dedica speciale attenzione a questioni ben note agli studiosi e ai pratici, a cominciare dalla problematica qualificazione quali “mafiose” di associazioni criminali operanti al di fuori dei contesti territoriali tradizionali, in particolare al nord e, ora, nella stessa capitale, divenuta palcoscenico dal grande processo di “Roma capitale”; e si scaglia – non risparmiando nomi e cognomi – contro chi invoca una generalizzata e acritica applicazione in questi contesti dell’art. 416 bis c.p., e di tutto ciò che la qualificazione come “mafiosa” di questa criminalità si tira dietro, quasi che dietro le prudenze di una parte della magistratura vi fosse una sistematica e colposa sottovalutazione della criminalità mafiosa al nord e al centro della penisola.

Altre perspicue analisi sono dedicate alle strategie di contrasto contro le infiltrazioni delle mafie nelle imprese, e in generale nell’economia legale; e poi al tema spinoso degli intrecci tra mafia e politica – spesso oggetto di indagini e processi conclusisi nel nulla dopo anni di gogne mediatiche –, così come a quello della contiguità alla mafia da parte della “borghesia” rispettabile: fatta di medici, di avvocati, di consulenti commerciali, e persino di sacerdoti accusati di aver celebrato messe per i capimafia latitanti. Una contiguità che evoca naturalmente il tema del concorso esterno, cui lo stesso Visconti ha dedicato in passato una fondamentale monografia, oggi tornato sul banco degli imputati in seguito a una nota sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

 

5. Filo rosso che unisce tutte queste analisi – condotte con il linguaggio atecnico di chi vuol far cogliere la sostanza dei problemi a chi, non essendo giurista, abbia tuttavia il desiderio e la giusta pretesa di comprenderequestioni al centro del dibattito pubblico contemporaneo – è la constatazione dell’ineliminabile complessità dei problemi in discussione. 

Una complessità – ci suggerisce Visconti – che non dipende, o non dipende soltanto, dall’oscurità delle norme da applicare, né dalla loro sovrabbondanza o dal loro scarso coordinamento, come istintivamente è portato a pensare il profano, inconsciamente influenzato dall’episodio dell’Azzeccagarbugli manzoniano; ma che dipende, soprattutto, dalle ambiguità e dai chiaroscuri della realtà che quelle norme vanno a regolare.

Proprio queste ambiguità e chiaroscuri, insiste l’autore, rendono arduo il compito del diritto penale: strumento “legnoso” e “anelastico”, che non si accontenta di ombre caravaggesche, ma esige prove solari, luminose, della commissione da parte del cittadino di un “fatto riconducibile a un tipo espressamente e compiutamente descritto dalla legge”.

Quasi banale il rammentarlo: assai meno il farne tesoro nella quotidiana pratica applicativa, specie quando si vuole insistentemente concepire il diritto penale – e in generale l’assieme degli strumenti deputati al contrasto della criminalità mafiosa – come un arsenale bellico contro un nemico giurato dell’intero ordinamento.

 

6. Ma il libro di Visconti non è soltanto, e non è tanto, un libro “contro” – contro la retorica dell’antimafia, o controgli eccessi repressivi compiuti in suo nome. Il suo è anzitutto un libro che guarda agli ultimi decenni della storia italiana – dall’inizio degli anni ottanta, e poi con sempre maggiore nettezza dall’epoca delle stragi di Capaci e di via D’Amelio in poi – come a un complessivo successo.

Il potere della mafia è stato sfidato seriamente attraverso uno sforzo congiunto dello Stato e della società civile in tutti questi anni, e ne è uscito fortemente indebolito. E ciò non certo per merito di magistrati pronti a sbarazzarsi della toga per improvvisarsi un futuro politico, né di “toghe telegeniche” o semplicemente chiacchierone, che scrivono libri con i materiali delle loro inchieste mentre queste sono ancora sub iudice. Il merito è stato piuttosto, osserva Visconti, di “migliaia di investigatori e agenti delle forze dell’ordine che lavorano in silenzio e colgono piccoli e grandi risultati sul campo […], scovando centinaia di latitanti e rischiando la vita”, così come di “decine e decine di pubblici ministeri che, al riparo dai riflettori, ragionano, si pongono costantemente interrogativi, studiano e al contempo guidano la polizia giudiziaria nelle indagini per poi celebrare i processi, senza parlarne prima sui giornali”; e assieme di “altrettanti giudici che in piena solitudine decidono di infliggere secoli di carcere ai mafiosi oppure di assolvere, magari con il dubbio di restituire la libertà a chi forse non lo meriterebbe ma sapendo che il diritto è e deve rimanere la loro bussola”.

 

7. Il merito forse maggiore è, però, della “marea di gente che dei mafiosi, mafiosetti e dei loro complici non ne può più”: una “minoranza vociante” trent’anni fa, divenuta oggi una “maggioranza silenziosa”.

Splendido il post-scriptum che chiude il volumetto: un piccolo spaccato di intimità domestica, con un paio di dialoghi tra l’autore e i propri figli, che considerano la mafia come qualcosa che appartiene ormai alla storia della loro città, e accusano il padre di essere ancora un “portatore sano” di quella che per loro non è che una malattia, come tutte le altre. Una malattia da conoscere e da combattere, certo; ma che le giovani generazioni sembrano concepire (finalmente!) come altro da sé, come qualcosa di estraneo alla identità palermitana, e – forse – italiana in genere.

Valuterà da sé il lettore se questa diagnosi rifletta soltanto l’inesperienza giovanile, e pecchi così di eccessivo ottimismo. Ma, se non altro, è confortante sentirci dire da un osservatore esperto come Visconti che tanti sforzi e tanto sangue non sono stati profusi e versati invano. Che ne è valsa la pena, insomma; e che ancora varrà la pena di lavorare, al riparo da impropri clamori mediatici ed eccessi repressivi, per contrastare – con le armi della civiltà e del buon senso prima ancora che dei codici – criminali pericolosi e spietati, ma per fortuna non onnipotenti né invincibili.