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Cosa non torna nel piano sull’immigrazione dello sceriffo Minniti

(Lo scrive con un’invidiabile chiarezza Filippo Miraglia, vice presidente Arci, che merita di essere letto con attenzione)

Il Ministro Minniti ha finalmente presentato in Parlamento il suo piano sull’immigrazione. Un piano che non si occupa delle questioni critiche che riguardano la presenza in Italia, a vario titolo e per ragioni diverse, di persone di origine straniera.

Per lo più le proposte rispondono alla retorica rappresentazione pubblica che dell’immigrazione viene data. Non abbiamo letto invece una parola su come le persone possano evitare di mettersi nelle mani dei trafficanti, rischiando la vita e pagando un prezzo elevatissimo, per attraversare le frontiere, sia per chiedere protezione che per cercare lavoro.

Non un accenno al decreto flussi, che non riguarda più i lavoratori e le lavoratrici a tempo indeterminato dal 2010 e quindi impedisce a qualsiasi azienda o famiglia di assumere regolarmente un operaio o una baby sitter.

Non un cenno alla riforma della legge sulla cittadinanza. E la lista delle questioni importanti ma assenti potrebbe continuare ed è molto lunga. Quel che invece c’è nel piano Minniti è proprio ciò di cui non si sentiva il bisogno. Per esempio diminuire i tempi dell’attesa per chi è arrivato in Italia e chiede protezione va bene, ma non a scapito delle garanzie e dei diritti. Non è questa la strada.

Una scorciatoia sbagliata e pericolosa, palesemente in contrasto con la nostra Costituzione. Di fatto si vuole introdurre una procedura meno garantista, discriminante, proprio per un gruppo socialmente molto debole. Oggi i tempi sono lunghi soprattutto fino al giudizio di primo grado e non è quindi saltando l’appello, abbassando le garanzie, che si risolverà alcunché.

Ci sono migliaia di richiedenti asilo che hanno aspettato mesi per poter compilare la domanda d’asilo, più di un anno per avere un colloquio con la Commissione Territoriale (ottenendo, nel 60% dei casi, un esito negativo, frutto troppo spesso dell’incompetenza di chi gestisce l’accoglienza e dovrebbe preparare le persone ai colloqui e dell’incompetenza di chi fa parte delle Commissioni), altri mesi, a volte un anno, per conoscere l’esito del colloquio (davvero non si capisce il perché di questo ritardo) e poi, in caso di diniego e successivo ricorso, uno o due anni per avere una sentenza non definitiva che, stando ai dati del Viminale (in particolare della Commissione Nazionale) con risposte favorevoli ai ricorrenti nel 70% dei casi.

Una percentuale, questa sì, che dovrebbe allarmare il ministro Minniti e suggerire una riforma delle Commissioni e del sistema d’accoglienza, non una riduzione delle garanzie. Peraltro è facile calcolare che il 70% del 60% dei dinieghi è pari a un altro 40% delle domande. Il che porta all’80% la percentuale di persone che, prima o poi, ottengono un titolo di soggiorno. Senza che questo abbia a che fare con l’appello che si vuol cancellare.

Concentrarsi sul 20% di persone che rimangono senza un titolo di soggiorno, aumentando il numero dei Cie (che cambierebbero nome), ci sembra guardare il dito senza accorgersi della luna. Sui Cie invece, che cambiando nome ma non cambiano ruolo, perché la legge rimane invariata, bisognerebbe far notare al ministro Minniti che in questi anni l’aumento o la diminuzione dei posti disponibili e dei tempi di detenzione non ha inciso in maniera sensibile sull’esito dei provvedimenti di rimpatrio forzato attraverso i Cie. Chiamarli CPR e distribuirli in tutte le regioni non consentirà di ottenere un numero più alto di rimpatri, ammesso che questo sia il problema principale.

E ancora, se è apprezzabile la preoccupazione di non lasciare inattivi per anni i richiedenti asilo in attesa di una risposta definitiva, si poteva fare di meglio che imporre lavori socialmente utili da svolgere in modo gratuito. Noi suggeriamo, per esempio, di allargare il Servizio Civile a tutti i richiedenti asilo, quale strumento per favorire l’integrazione sociale, attraverso progetti specifici delle organizzazioni sociali e degli enti pubblici, con una strumentazione e una procedura già sperimentata e funzionante.

Se si vuole intervenire utilmente, anche senza modifiche legislative, per migliorare la condizione di migranti e rifugiati c’è la possibilità di farlo. Riproporre il binomio immigrazione-sicurezza, insieme a vecchi schemi e a vecchie formule, che hanno già dimostrato di non funzionare, se non per produrre sprechi e alimentare il razzismo, non è la strada giusta.

(fonte)