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L’ipocrita? Ci disturba perché lancia falsi segnali virtuosi.

A nessuno piacciono le persone ipocrite, ma a pensarci bene, è strano che le disprezziamo tanto. Certo, non è corretto predicare bene e razzolare male, ma almeno predichiamo. Se continuo a parlare dell’importanza di allevamenti meno intensivi e meno crudeli, sto trasmettendo un messaggio giusto, anche se il sabato potreste beccarmi mentre addento un hamburger di dubbia provenienza comprato da un furgone in un vicolo. È sempre meglio di niente, no? Be’, no.

Sia la ricerca sia l’esperienza ci dicono che è peggio di niente: odiamo gli ipocriti più delle persone che si comportano apertamente male. Di recente ne abbiamo avuto una deprimente riprova, tra le altre cose, anche in politica: se non puoi essere di un’onestà specchiata – e chi può esserlo? – forse fai meglio a comportarti direttamente come un mostro.

Perché mai proviamo questa particolare ostilità per l’ipocrisia? Potremmo dire che le persone ipocrite mancano di autodisciplina, e che questo è un difetto morale, ma non mi sembra una spiegazione sufficiente. Il mese scorso, la psicologa Jillian Jordan e i suoi colleghi di Yale ne hanno trovata una migliore: odiamo gli ipocriti perché sono colpevoli di lanciare “falsi segnali”.

Una scorciatoia morale
Secondo la teoria evoluzionistica, i segnali sono il nostro modo di comunicare per ottenere quello che vogliamo dagli altri e comprendono tutto, dalle danze di accoppiamento dei pavoni al mimetismo delle lucertole. Chi condanna aspramente gli altri perché giustificano forme di allevamento crudeli, anche se non lo dice, lascia intendere di non accettarle. È un segnale. E funziona: la condanna morale, come hanno dimostrato gli psicologi di Yale, aumenta la nostra reputazione più che se ci vantassimo apertamente della nostra moralità. È una scorciatoia per ottenere rispetto. Non c’è da meravigliarsi, quindi, se ci siamo abituati, per motivi evolutivi o sociali, a reagire con tanta rabbia quando scopriamo che quella reputazione è immeritata.

Questo, direi, è il fondo di verità che c’è quando accusiamo qualcuno di “autoincensarsi”, la critica rivolta alle persone sospettate di essere più interessate a sbandierare le proprie credenziali progressiste – di essere antirazzisti, antisessisti eccetera – che non alla vera moralità (naturalmente, accusare qualcuno di autoincensarsi è a sua volta un tentativo di dimostrare quanto siamo astuti e smaliziati). Quello che rende fastidiosi questi segnali è, senza dubbio, il sospetto che siano falsi, che la persona che li lancia non sia affatto virtuosa, o che potrebbe addirittura usarli come alternativa a un comportamento etico. Ogni volta che un articolo esprime una condanna morale, varrebbe la pena chiederci se per caso chi scrive non stia cercando un modo dinegare i suoi pregiudizi.

Il che mi porta alla parte più interessante dello studio di Yale: se siamo “ipocriti onesti”, se cioè ammettiamo apertamente di avere difficoltà a rispettare il principio che predichiamo, la nostra ipocrisia non dà fastidio a nessuno (essendo così sinceri, non siamo più colpevoli di lanciare falsi segnali).

Ma di solito ci vergogniamo di ammettere i nostri travagli interiori, anche se quasi sempre ci rendono più umani. Quindi la cosa migliore da fare è evitare di essere sia rigidi moralisti sia cinici freddi e distaccati. È meglio sostenere con forza quello in cui crediamo, e ammettere sinceramente le nostre debolezze. Così saremo veramente virtuosi, e piaceremo a tutti. Questo è il mio consiglio. Se solo riuscissi a essere il primo a seguirlo…

(Traduzione di Bruna Tortorella)

(fonte)

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.