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L’Europa secondo Amnesty

(dal rapporto annuale 2016-2017 di Amnesty International, qui)

Il 30 novembre 2016, Ahmed H, un siriano che viveva a Cipro, è stato processato con accuse di terrorismo a Budapest, capitale dell’Ungheria. È stato accusato di aver provocato gli scontri tra polizia e rifugiati, a seguito dell’improvvisa chiusura del confine ungherese con la Serbia, a settembre 2015. L’accusa ha fatto riferimento al legame suggerito dal governo tra richiedenti asilo musulmani e la minaccia terroristica. In realtà, Ahmed H era lì soltanto per aiutare i suoi anziani genitori siriani a fuggire dal loro paese devastato dalla guerra. Preso nella mischia, ha ammesso di aver lanciato pietre contro la polizia ma per la maggior parte del tempo, come hanno testimoniato numerose persone, aveva cercato di calmare la folla. Ciò nonostante è stato condannato, diventando così il simbolo, spaventoso e tragico, di un continente che sta voltando le spalle ai diritti umani.

Ancora più a est, figure forti al potere da lunga data hanno stretto ancora di più la presa sul potere. Le costituzioni di Tagikistan, Azerbaigian e Turkmenistan sono state modificate per estendere la durata dei mandati presidenziali. In Russia, il presidente Vladimir Putin ha continuato a cavalcare l’ondata di popolarità generata dalle incursioni russe in Ucraina e dalla sua nuova influenza a livello internazionale, mentre nel frattempo indeboliva la società civile del suo paese. In tutta l’ex Unione Sovietica, la repressione del dissenso e dell’opposizione politica è proseguita in modo costante, colpendo obiettivi precisi.

Gli eventi più tumultuosi della regione hanno avuto luogo in Turchia, che è stata scossa da continui scontri nel sud-est, da una serie di attentati dinamitardi e sparatorie e da un violento tentativo di colpo di stato a luglio, dopo il quale l’atteggiamento del governo verso i diritti umani ha avuto un drammatico peggioramento. Attribuendone la responsabilità a Fethullah Gülen, una volta alleato e ora acerrimo nemico, le autorità turche si sono mosse velocemente per annientare il vasto movimento che egli aveva creato. Circa 90.000 dipendenti pubblici, la maggior parte dei quali sospettati di essere gulenisti, sono stati licenziati con un decreto esecutivo. Almeno 40.000 persone sono state sottoposte a custodia cautelare, tra le accuse diffuse di tortura e altri maltrattamenti. Con la chiusura di centinaia di mezzi d’informazione e Ngo e l’arresto di giornalisti, accademici e parlamentari, il giro di vite ha progressivamente spostato il suo obiettivo oltre il colpo di stato, per reprimere altri dissidenti e voci filocurde.

Persone in movimento

Dopo l’arrivo via mare di poco più di un milione di rifugiati e migranti nel 2015, gli stati membri dell’Eu hanno deciso di ridurne drasticamente il numero nel 2016. L’obiettivo è stato raggiunto ma a pagarne l’alto prezzo, che era stato messo in conto, sono stati i diritti e il benessere delle persone in cerca di protezione.

A fine dicembre erano circa 358.000 i rifugiati e i migranti che avevano passato i confini per entrare in Europa. Il numero di coloro che hanno scelto la rotta del Mediterraneo centrale è leggermente aumentato (fino a circa 170.000 persone) ma c’è stato un forte calo degli arrivi sulle isole greche (da 854.000 a 173.000 persone), quasi interamente a causa dell’accordo per il controllo dell’immigrazione, siglato a marzo tra l’Eu e la Turchia. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni ha stimato che circa 5.000 persone siano morte in mare nel 2016, una cifra record rispetto alle circa 3.700 del 2015.

L’accordo tra Eu e Turchia è stato l’emblematica risposta dell’Eu alla cosiddetta “crisi dei rifugiati”. Alla Turchia sono stati offerti sei miliardi di euro per sorvegliare le proprie coste e accettare il ritorno dei richiedenti asilo che erano riusciti a raggiungere le isole greche. L’accordo ha avuto come presupposto l’affermazione falsa che la Turchia offriva ai richiedenti asilo tutte le protezioni alle quali avrebbero avuto diritto nell’Eu. Con un sistema di asilo a malapena funzionante e quasi tre milioni di rifugiati siriani che già lottavano per andare avanti, quell’affermazione ha testimoniato la volontà dell’Eu d’ignorare i diritti e le condizioni di vita dei rifugiati, per seguire i propri fini politici.

Anche se il numero di nuovi arrivati è ​​diminuito fino a una media di poche migliaia al mese, la capacità di accoglienza delle isole greche è rimasta ancora gravemente carente. A fine anno, circa 12.000 rifugiati e richiedenti asilo erano bloccati sulle isole, in centri improvvisati e sempre più affollati, insalubri e pericolosi. Le pessime condizioni di vita hanno periodicamente scatenato rivolte all’interno dei campi, mentre alcuni sono stati attaccati da residenti, accusati di essere legati a gruppi di estrema destra. Le condizioni dei circa 50.000 rifugiati e migranti nella Grecia continentale sono state solo parzialmente migliori. A fine anno, la maggior parte aveva trovato rifugio nelle strutture ufficiali di accoglienza, che tuttavia erano per lo più costituite da tende e magazzini abbandonati e inadatte a viverci per più di pochi giorni.

Mentre l’anno volgeva al termine, l’accordo tra Eu e Turchia era ancora in vigore ma sembrava sempre più fragile. Era ormai chiaro, tuttavia, che questo era stato solo una prima linea di difesa. La seconda iniziativa per fermare l’arrivo di persone in Europa è stata la chiusura della rotta balcanica sopra la Grecia, a marzo. La Macedonia e altri paesi balcanici sono stati persuasi a chiudere le frontiere e sono stati supportati in questa operazione da guardie di frontiera provenienti da diversi paesi europei. Inizialmente, la mossa è stata caldeggiata dal primo ministro ungherese Viktor Orbán e poi ripresa dall’Austria. Per molti leader europei, la miseria dei rifugiati intrappolati in Grecia era chiaramente il prezzo da pagare per scoraggiare l’arrivo di altri.

La mancanza di solidarietà verso i rifugiati e verso alcuni altri stati membri è stata un tipico esempio delle politiche migratorie della maggior parte dei paesi dell’Eu, che sono stati uniti nei programmi per limitare gli ingressi e accelerare i ritorni. Questo è diventato evidente con il fallimento del programma di ricollocazione, di cui l’Eu si era fatta vanto. Adottato dai capi di stato a settembre 2015, allo scopo di distribuire le responsabilità dell’accoglienza per la gran quantità di rifugiati che arrivava in un piccolo numero di paesi, il piano prevedeva entro due anni il trasferimento in tutta l’Eu di 120.000 persone, provenienti da Italia, Grecia e Ungheria. Dopo che l’Ungheria ha respinto il progetto, ritenendo che sarebbe stato meglio semplicemente chiudere del tutto i propri confini, la sua quota è stata riassegnata a Grecia e Italia. A fine 2016, solo circa 6.000 persone erano state trasferite dalla Grecia e poco meno di 2.000 dall’Italia.

Il programma di ricollocazione era affiancato da un’altra iniziativa dell’Eu, lanciata nel 2015: “l’approccio hotspot”. Questo piano, ispirato dalla Commissione europea, prevedeva grossi centri di registrazione in Italia e in Grecia, dove identificare e prendere le impronte digitali dei nuovi arrivati, valutare rapidamente le loro esigenze di protezione e quindi trattare le loro domande di asilo oppure trasferirli in altri paesi dell’Eu o ancora rimandarli nel paese di origine (o, coloro che arrivavano in Grecia, rimandarli in Turchia). Quando la parte del piano relativa alle ricollocazioni è a tutti gli effetti fallita, l’Italia e la Grecia sono state lasciate sole ad affrontare enormi pressioni affinché prendessero le impronte digitali, esaminassero i casi e rimpatriassero quanti più migranti possibile. Sono stati registrati episodi di maltrattamenti durante la raccolta delle impronte digitali, detenzione arbitraria di migranti ed espulsioni di massa. Ad agosto, un gruppo di 40 sudanesi, molti provenienti dal Darfur, è stato rimpatriato, poco dopo la firma di un memorandum d’intesa tra la polizia italiana e quella sudanese. Al loro arrivo in Sudan, i migranti sono stati interrogati dal servizio d’intelligence e sicurezza nazionale sudanese, un’agenzia implicata in gravi violazioni dei diritti umani.

La spinta a rimpatriare il maggior numero di migranti possibile è diventata sempre più un elemento chiave della politica estera dell’Eu e degli stati membri. A ottobre, l’Eu e l’Afghanistan hanno sottoscritto l’accordo di cooperazione “Joint Way Forward”, siglato nel contesto di una conferenza di donatori. L’accordo obbligava l’Afghanistan a collaborare al rimpatrio di richiedenti asilo afgani respinti (il tasso di riconoscimento dell’asilo per gli afgani è sceso nella maggior parte degli stati, nonostante la crescente insicurezza nel paese), compresi i minori non accompagnati.

Il ruolo centrale della gestione della migrazione nella politica estera dell’Eu è stato dimostrato da un altro documento, il “Quadro di partenariato”, approvato dal Consiglio europeo a giugno. Il piano proponeva di utilizzare gli aiuti, il commercio e altre risorse per fare pressione sui paesi, affinché riducessero il numero di migranti in arrivo sulle coste dell’Eu e, al tempo stesso, di negoziare accordi di cooperazione per il controllo delle frontiere e di riammissione, anche con paesi che violavano regolarmente i diritti umani.

La spinta a esternalizzare la gestione dei flussi migratori in Europa è andata di pari passo con misure per limitare, a livello nazionale, l’accesso all’asilo e ai relativi benefici. La tendenza è stata particolarmente evidente nei paesi nordici, che in passato erano stati generosi: Finlandia, Svezia, Danimarca e Norvegia hanno introdotto modifiche regressive alla loro legislazione in materia d’asilo; la Norvegia ha addirittura dichiarato l’intenzione di dotarsi della “politica sui rifugiati più rigorosa di tutta l’Europa”. Finlandia, Svezia e Danimarca, così come la Germania, hanno tutte limitato o ritardato l’accesso al ricongiungimento familiare per i rifugiati.

I paesi membri più vicini alle principali frontiere esterne dell’Eu hanno adottato le misure più drastiche. A gennaio, il governo austriaco ha annunciato un tetto di 37.500 domande di asilo per il 2016. Ad aprile, una modifica alla legge sull’asilo ha conferito al governo il potere di dichiarare lo stato di emergenza, in caso di massicci arrivi di richiedenti asilo, permettendo la valutazione accelerata delle domande alla frontiera e il rimpatrio immediato di quelli che non ottenevano protezione, senza l’obbligo di fornire una motivazione ponderata.

Il deterioramento del sistema d’asilo europeo ha toccato il punto più basso in Ungheria. Dopo la costruzione di una recinzione lungo la maggior parte del confine con la Serbia, realizzata a settembre 2015, e dopo aver modificato la legislazione in materia di asilo, nel 2016 il governo ungherese ha inaugurato una serie di misure che hanno provocato violenti respingimenti alla frontiera con la Serbia, detenzioni illegali all’interno del paese e pessime condizioni di vita per le persone in attesa al confine. Mentre il governo ungherese spendeva milioni di euro per una campagna pubblicitaria xenofoba a sostegno del fallito referendum per rifiutare il programma di ricollocazione dell’Eu, i rifugiati sono stati lasciati a languire. Le procedure d’infrazione, avviate dalla Commissione europea per le molteplici violazioni del diritto comunitario e internazionale in materia di asilo, a fine anno erano ancora aperte.

All’estremità opposta dell’Europa, in Francia, l’aumento progressivo dei richiedenti asilo e migranti nella “giungla” di Calais e lo smantellamento del campo a ottobre sono divenuti un simbolo del fallimento delle politiche europee sulla migrazione, proprio come i campi sovraffollati sulle isole greche di Lesbo e Chio e i ripari improvvisati davanti alle barriere di filo spinato dell’Ungheria.

I notevoli sforzi della Germania per dare riparo e valutare le richieste d’asilo di quasi un milione di persone, giunte nel paese l’anno precedente, sono stati forse l’unica risposta positiva di un governo alla “crisi dei rifugiati” in Europa. Nel complesso, sono stati i comuni cittadini a mostrare la solidarietà che mancava ai loro leader. In innumerevoli centri d’accoglienza in tutta Europa, decine di migliaia di persone hanno dimostrato più e più volte che esisteva un’altra visione rispetto al dibattito sempre più astioso sulla migrazione, basata sull’accoglienza e il sostegno a rifugiati e migranti.

Controterrorismo e sicurezza

In Francia, Belgio e Germania, oltre un centinaio di persone sono state uccise e molte altre ferite in attacchi violenti. Sono state colpite dagli spari di uomini armati, fatte saltare in aria da attentatori suicidi e deliberatamente travolte mentre camminavano per strada. I governi di tutta Europa sono stati sempre più sotto pressione per garantire il diritto alla vita e consentire alle persone di vivere, muoversi e pensare liberamente. Tuttavia, per mantenere queste libertà essenziali molti paesi hanno messo in atto misure antiterrorismo che indebolivano i diritti umani e gli stessi valori che erano sotto attacco.

Il 2016 è stato testimone di un profondo cambiamento di modello: dall’idea che sia compito dei governi garantire la sicurezza in modo che le persone possano godere dei loro diritti, si è passati a quella per cui i governi devono limitare i diritti delle persone al fine di garantire la sicurezza. Il risultato ha ridisegnato in modo pericoloso i confini tra i poteri dello stato e i diritti delle persone.

Uno degli sviluppi più allarmanti è stato lo sforzo da parte degli stati di rendere più facile il ricorso allo “stato di emergenza” e il suo prolungamento. L’Ungheria ha aperto la strada, con l’adozione di una normativa che prevede vasti poteri esecutivi in ​​caso di dichiarazione dello stato di emergenza, tra cui il divieto di organizzare riunioni pubbliche, severe restrizioni alla libertà di movimento e il congelamento dei beni senza controllo giudiziario. A luglio, il parlamento bulgaro ha approvato, alla prima votazione, una serie di misure simili. A dicembre, la Francia ha prolungato per la quinta volta lo stato di emergenza, imposto dopo gli attacchi del novembre 2015. I poteri di emergenza sono stati significativamente ampliati con l’estensione approvata a luglio, che ha reintrodotto le perquisizioni nelle abitazioni senza preventiva approvazione giudiziaria (una misura che era stata eliminata in una revisione precedente) e nuove possibilità di vietare le manifestazioni per motivi di pubblica sicurezza, utilizzate in vario modo per impedire le proteste. A dicembre, il governo ha reso noti i dati: dal novembre 2015 erano state effettuate 4.292 perquisizioni e 612 persone erano state assegnate alla residenza obbligatoria. Questi numeri hanno fatto sorgere il timore che i poteri di emergenza fossero stati utilizzati in modo sproporzionato.

Misure una volta considerate eccezionali sono state incorporate nel diritto penale ordinario in diversi stati europei. Tra queste figuravano il prolungamento del periodo di detenzione preventiva per le persone sospettate di terrorismo, in Slovacchia e Polonia, e la proposta del Belgio di fare altrettanto per ogni tipo di accusa. Nei Paesi Bassi e in Bulgaria è stato proposto al parlamento d’introdurre misure di controllo amministrativo per limitare la libertà di movimento delle persone, senza previa autorizzazione giudiziaria. Applicati per la prima volta nel Regno Unito e in Francia, tali controlli, che in alcuni casi equivalevano ad arresti domiciliari, sono stati imposti in base a documenti di sicurezza secretati, non consentendo così alle persone colpite di contestare efficacemente in tribunale i provvedimenti, che avevano effetti dannosi sulla loro vita e su quella delle loro famiglie.

Centinaia di persone sono state perseguite, in violazione del diritto alla libertà d’espressione, per reati quali la giustificazione o la glorificazione del terrorismo, spesso per commenti pubblicati sui social network, in particolare in Francia e meno frequentemente in Spagna. Una proposta di Direttiva europea sulla lotta al terrorismo, che a fine anno era ancora in attesa di adozione, avrebbe portato alla proliferazione di norme analoghe. In Germania è stata presentata una proposta per vietare una generica “promozione del terrorismo”, mentre in Belgio e nei Paesi Bassi sono stati presentati disegni di legge in parlamento per l’introduzione di reati simili.

In tutta Europa, gli stati hanno notevolmente incrementato i poteri di sorveglianza, a dispetto delle numerose sentenze della Corte di giustizia dell’Eu e della Corte europea dei diritti umani, secondo le quali la sorveglianza occulta e l’intercettazione e la conservazione dei dati di comunicazione violavano il diritto alla riservatezza, a meno che non fossero basate su un ragionevole sospetto di attività criminali gravi e nella misura strettamente necessaria per dare un contributo efficace alla lotta contro tali attività. Entrambe le corti hanno ripetutamente affermato che la legislazione nazionale in materia di sorveglianza deve fornire sufficienti garanzie contro gli abusi, compresa l’autorizzazione preventiva da parte di un tribunale o di un’altra autorità indipendente. Il Regno Unito ha introdotto forse i più ampi poteri di sorveglianza di massa e mirati con la legge sui poteri investigativi, adottata a novembre. Comunemente indicata come “lo statuto del ficcanaso”, la legge consentiva una vasta gamma di pratiche d’intercettazione, interferenza e conservazione dei dati definite in modo vago e imponeva alle aziende private nuovi requisiti per archiviare i dati di comunicazione. Tutti i poteri previsti dalla nuova legge, sia quelli mirati che quelli collettivi, potevano essere autorizzati da un ministro del governo dopo la revisione, nella maggior parte ma non in tutti i casi, di un organo semigiudiziario, composto da membri nominati dal primo ministro. A dicembre, la Corte di giustizia dell’Eu ha stabilito che la normativa di sorveglianza del Regno Unito violava il diritto alla riservatezza.

Oltre al Regno Unito, nel corso dell’anno, anche Austria, Svizzera, Belgio, Germania, Russia e Polonia hanno adottato nuove normative in materia di sorveglianza, introducendo tutti, con minime variazioni, ampi poteri per raccogliere e conservare dati elettronici e condurre attività mirate di sorveglianza, nei confronti di gruppi specifici definiti in modo vago o persone sospettate, con poca o nessuna supervisione giudiziaria o di altro genere. A fine anno, anche i Paesi Bassi e la Finlandia avevano analoghe proposte legislative in attesa dell’esame del parlamento.

Discriminazione

In tutta Europa, i musulmani e i migranti sono stati esposti a profilazione razziale e discriminazione da parte della polizia, sia in virtù dei poteri antiterrorismo sia durante le normali operazioni di mantenimento dell’ordine, anche nei controlli d’identità.

Le iniziative per combattere l’estremismo violento, che spesso hanno incluso anche obblighi di segnalazione da parte d’istituzioni pubbliche, hanno rischiato d’isolare le comunità musulmane e di limitare la libertà d’espressione. La Bulgaria e il parlamento svizzero hanno adottato norme che vietavano l’uso del velo integrale in pubblico. A fine anno, un analogo progetto di legge era in attesa d’esame da parte del parlamento olandese ma anche in Germania è stata avanzata una proposta simile. In Francia, molti comuni della costa hanno cercato di vietare l’uso del “burkini” sulle spiagge. Le disposizioni discriminatorie sono state cancellate dal consiglio di stato ma un certo numero di comuni ha mantenuto il divieto nonostante il suo pronunciamento.

Diversi paesi europei hanno visto aumentare il numero dei crimini d’odio nei confronti di richiedenti asilo, musulmani e cittadini stranieri. In Germania si è verificato un brusco aumento degli attacchi contro i centri di accoglienza per richiedenti asilo e nel Regno Unito il numero di crimini d’odio è salito del 14 per cento nei tre mesi successivi al referendum di giugno, sull’uscita del paese dall’Eu (Brexit), rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

I rom hanno continuato a subire discriminazioni diffuse in tutta Europa nell’accesso all’alloggio, all’istruzione, all’assistenza sanitaria e all’occupazione. Sono rimasti esposti agli sgomberi forzati in tutta l’Europa centrale ma anche in Francia e in Italia. Sebbene sia aumentata la tendenza dei tribunali a pronunciarsi in favore delle comunità sgomberate, le loro decisioni raramente hanno portato miglioramenti per le persone colpite. Nella Repubblica Ceca ci sono stati sviluppi positivi: sotto l’impulso di una procedura d’infrazione dell’Eu, a settembre, con l’inizio dell’anno scolastico, sono entrate in vigore una serie di riforme per ridurre l’eccessiva presenza dei rom nelle scuole speciali.

Ci sono stati progressi, anche se incostanti, per i diritti delle persone Lgbti. La Francia ha adottato una nuova legge che ha eliminato i requisiti medici per il riconoscimento legale del genere, mentre la Norvegia ha concesso questo diritto sulla base dell’autoidentificazione. Misure analoghe erano previste in Grecia e in Danimarca. Un certo numero di paesi ha approvato norme per garantire il rispetto dei diritti delle coppie omosessuali e le adozioni del secondo genitore. L’Italia e la Slovenia hanno adottato leggi che riconoscevano le unioni di coppie omosessuali. Il 12 giugno, nella capitale ucraina Kiev, si è tenuta senza incidenti la marcia del Pride Lgbti, grazie al sostegno delle autorità cittadine e alla massiccia protezione della polizia. Alla marcia hanno preso parte circa 2.000 persone ed è stata la più grande manifestazione di questo genere mai tenuta in Ucraina.

Sul fronte opposto, in Uzbekistan e Turkmenistan, gli atti omosessuali consensuali sono rimasti reato. In Kirghizistan, il progetto di legge sull’introduzione del reato di “promozione di un atteggiamento positivo” verso le “relazioni sessuali non tradizionali” era ancora in discussione in parlamento e, con un referendum tenuto a dicembre, è stato approvato l’inserimento nella costituzione di una norma che vietava i matrimoni tra persone dello stesso sesso. Gruppi conservatori, sempre più organizzati e a volte sostenuti dallo stato, hanno opposto una forte resistenza ai cambiamenti. Il presidente della Georgia ha bloccato una proposta di referendum per cambiare le definizioni costituzionali di matrimonio e famiglia, con l’obiettivo di escludere esplicitamente le coppie omosessuali, ma in Romania la Corte costituzionale ha permesso di portare in parlamento una proposta analoga. A giugno, pochi giorni dopo che 3.000 persone avevano sfilato nella “Marcia per l’uguaglianza”, per celebrare il Pride baltico del 2016 a Vilnius, un’identica proposta di modifica della costituzione della Lituania è stata approvata dal parlamento, nella prima delle due votazioni richieste.

Anche per i diritti delle donne i progressi sono stati intermittenti. La violenza sulle donne è rimasta dilagante, nonostante il costante miglioramento delle tutele legislative. Bulgaria, Repubblica Ceca e Lettonia hanno firmato la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne (Convenzione di Istanbul), che è stata ratificata da Romania e Belgio. Tuttavia, con un enorme passo indietro, il governo polacco ha annunciato l’intenzione di ritirarsi dalla Convenzione, pur avendola ratificata soltanto un anno prima e nonostante sia stato stimato che, nel paese, ogni anno fino a un milione di donne sono vittime di violenza. Il partito al governo ha anche limitato i diritti sessuali e riproduttivi. Dopo uno sciopero generale delle donne, svoltosi il 3 ottobre, il parlamento polacco ha respinto un disegno di legge che proponeva un divieto quasi totale di aborto e la criminalizzazione delle donne e delle ragazze che avevano abortito e di chiunque le avesse assistite o incoraggiate ad abortire. In Irlanda, gli appelli a rivedere la legislazione molto restrittiva sull’aborto hanno acquisito sempre maggiore slancio, mentre il Comitato delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia ha esortato il paese a depenalizzare l’aborto. A Malta, l’aborto è rimasto reato in ogni circostanza.

Libertà d’espressione, associazione e riunione pacifica

In tutti i paesi dell’ex Unione Sovietica, la repressione del dissenso, delle opinioni critiche e dell’opposizione politica è rimasta la norma. In Uzbekistan, Turkmenistane Bielorussia, pur rimanendo forte, la repressione non è particolarmente peggiorata rispetto agli anni precedenti. In Tagikistan e Kazakistan si è verificato un marcato peggioramento, mentre in Russia e Azerbaigian la tendenza alla repressione, ormai di lunga data, si è rafforzata. In Ucraina, i mezzi d’informazione filorussi hanno subìto sempre maggiori attacchi, mentre in Crimea e in Russia sono state severamente represse le voci filoucraine e tatare. In Turchia, la libertà d’espressione è stata limitata in modo violento, in seguito al fallito colpo di stato. I Balcani sono rimasti un luogo pericoloso per i giornalisti d’inchiesta, decine dei quali hanno subìto procedimenti giudiziari e pestaggi per aver denunciato gli abusi, mentre all’interno dell’Eu, Polonia, Ungheria e Croazia hanno rafforzato il controllo sulle emittenti pubbliche.

La Russia ha continuato a stringere il cappio intorno alle Ngo, utilizzando campagne mediatiche diffamatorie e la “legge sugli agenti stranieri” per colpire le più critiche. Decine di Ngo indipendenti che ricevevano finanziamenti esteri sono state aggiunte alla lista degli “agenti stranieri”, portando il numero totale a 146, di cui 35 hanno chiuso definitivamente. La pubblica accusa ha aperto il primo caso penale per “evasione sistematica degli obblighi imposti dalla legge” nei confronti di Valentina Čerevatenko, fondatrice e presidente dell’Unione delle donne del Don. Anche la libertà di riunione pacifica ha continuato a essere strettamente controllata.

Il Kazakistan ha utilizzato per la prima volta disposizioni di diritto penale per colpire dirigenti di Ngo. Sono state arrestate decine di “organizzatori” e centinaia di partecipanti alle proteste, svoltesi ad aprile e maggio contro il nuovo codice fondiario. In violazione del diritto alla libertà d’espressione, sono aumentate le azioni penali per commenti pubblicati sui social network, mentre diversi importanti giornalisti sono stati condannati, con l’accusa di aver “consapevolmente diffuso informazioni false” e appropriazione indebita. A gennaio 2016 sono entrate in vigore le modifiche alla legge sulle comunicazioni, che hanno obbligato gli utenti di Internet a installare sul proprio computer un “certificato di sicurezza nazionale”, che ha permesso alle autorità d’ispezionare le comunicazioni e di bloccare l’accesso ai contenuti che giudicavano illegali.

In Tagikistan, le autorità hanno messo in atto un importante giro di vite sulla scia della repressione del Partito della rinascita islamica del Tagikistan, messo al bando: 14 suoi dirigenti sono stati condannati a lunghe pene detentive per accuse di terrorismo, durante processi segreti. Ad agosto, il governo ha emanato un decreto, valido per cinque anni, con cui si è attribuito il diritto di “regolare e controllare” il contenuto di tutte le reti televisive e radiofoniche, attraverso la commissione statale per le trasmissioni. La sorveglianza sui difensori dei diritti umani si è fatta sempre più forte e mezzi d’informazione e giornalisti indipendenti hanno subìto intimidazioni e vessazioni da parte della polizia e dei servizi di sicurezza. Le autorità hanno continuato a ordinare ai fornitori di servizi Internet di bloccare l’accesso a certi portali di notizie e social network, mentre un nuovo decreto ha richiesto ai fornitori di Internet e agli operatori delle telecomunicazioni d’incanalare i loro servizi attraverso un nuovo centro unico di comunicazione, gestito dalla società di proprietà statale Tajiktelecom.

L’Azerbaigian ha continuato a reprimere gli attivisti dell’opposizione, le Ngo per i diritti umani e i mezzi d’informazione indipendenti. Sono stati rilasciati 12 prigionieri di coscienza ma altri 14 erano ancora in carcere a fine anno, tra cui Ilgar Mammadov, la cui condanna è stata confermata a novembre dalla Corte suprema, nonostante il verdetto della Corte europea dei diritti umani che ne chiedeva il rilascio. Ad Amnesty International è stato negato l’ingresso nel paese, come già accaduto in Uzbekistan e Turkmenistan. Le proteste pubbliche hanno continuato a essere gravemente limitate; le poche manifestazioni che hanno avuto luogo sono state disperse dalla polizia con un uso eccessivo della forza e attivisti politici sono stati arrestati per averle organizzate.

In Ucraina, i mezzi d’informazione sono stati generalmente liberi ma un certo numero di organi di stampa, quelli percepiti come filorussi o sostenitori dei separatisti e quelli particolarmente critici nei confronti delle autorità, hanno subìto molestie. I giornalisti indipendenti non hanno potuto lavorare in Crimea, dove le autorità russe occupanti hanno continuato a limitare gravemente i diritti alla libertà d’espressione, associazione e riunione pacifica. I tatari di Crimea sono stati vittime di particolare repressione.

Il rispetto della libertà d’espressione si è fortemente deteriorato in Turchia, soprattutto dopo la dichiarazione dello stato di emergenza a seguito del fallito colpo di stato di luglio. Centodiciotto giornalisti sono stati arrestati e rinviati in custodia cautelare e 184 mezzi di comunicazione sono stati chiusi definitivamente e in modo arbitrario, con decreti esecutivi. La censura su Internet è aumentata e, a novembre, con un decreto esecutivo, sono state chiuse 375 Ngo, tra cui gruppi per i diritti delle donne, associazioni di avvocati e organizzazioni umanitarie.

Impunità e responsabilità

Tortura e altri maltrattamenti sono stati diffusi in tutti i paesi dell’ex Unione Sovietica; in alcuni sono stati introdotti nella legislazione miglioramenti solo sulla carta ma l’impunità è rimasta la norma. La prospettiva di un accertamento delle responsabilità per le violazioni su larga scala, commesse dalle forze di polizia e di sicurezza durante le proteste di Euromaydan nel 2013-2014, di Gezi Park nel 2013 e nel corso degli scontri etnici in Kirghizistan meridionale nel 2010, si è affievolita in Ucraina, è rimasta remota in Turchia ed è scemata fino a svanire in Kirghizistan.

Nell’Eu, l’individuazione delle responsabilità per la complicità nel programma di rendition gestito dagli Stati Uniti è rimasta lontana, nonostante i procedimenti in corso dinanzi alla Corte europea dei diritti umani. A fine anno, nessuno era stato riconosciuto penalmente responsabile di coinvolgimento nella detenzione illegale e nella tortura e altri maltrattamenti di sospetti terroristi in Polonia, Lituania o Romania.

Sebbene negli ultimi 10 anni avesse compiuto notevoli progressi per l’eliminazione della tortura nei luoghi di detenzione, in Turchia c’è stato un aumento allarmante delle denunce, sulla scia del fallito colpo di stato. Con migliaia di persone detenute dalla polizia, in modo ufficiale e non, le segnalazioni di gravi percosse, violenza sessuale, stupri e minacce di stupro sono state costantemente e inverosimilmente negate dalle autorità turche.

Pena di morte

Verso la fine dell’anno, il presidente turco Recip Tayyip Erdoğan ha promesso di portare in parlamento la proposta di reintroduzione della pena di morte, nonostante le numerose condanne a livello internazionale e gli obblighi della Turchia in quanto stato membro del Consiglio d’Europa. La Bielorussia, l’ultimo stato europeo a effettuare esecuzioni, ha messo a morte quattro persone nel corso dell’anno, nonostante il governo avesse, non per la prima volta, diffuso voci incoraggianti circa la sua imminente abolizione. In Kazakistan, un uomo è stato condannato a morte con l’accusa di terrorismo.

Conflitti e violenza armata

A novembre, nella sua analisi preliminare sui combattimenti in Ucraina orientale, l’Icc ha concluso che equivalevano a un conflitto armato internazionale. Si sono sporadicamente verificati alcuni scontri ma la situazione generale è rimasta militarmente e politicamente in stallo. Le autorità del Donbass, appoggiate dalla Russia, hanno mantenuto una pressoché totale autonomia. A fine anno, la Missione di monitoraggio dei diritti umani in Ucraina delle Nazioni Unite ha stimato a quasi 10.000 il numero delle vittime, di cui almeno 2.000 civili. Sia le autorità ucraine, sia le forze separatiste in Ucraina orientale sono ricorse alla detenzione illegale di civili sospettati di appoggiare la fazione opposta o per impiegarli nello “scambio di prigionieri”. Tutte le persone, di cui si sapeva che erano segretamente detenute dalle forze ucraine, sono state rilasciate entro la fine dell’anno.

Ad aprile, una breve serie di scontri è scoppiata tra l’Azerbaigian e l’Armenia, nella regione separatista del Nagorno-Karabakh, appoggiata da quest’ultima. I combattimenti sono durati quattro giorni e hanno provocato un piccolo numero di vittime militari e civili, reciproche recriminazioni e piccole conquiste territoriali per l’Azerbaigian.

Le autorità turche hanno continuato a condurre operazioni pesantemente militarizzate in numerose aree urbane in tutto il sud-est della Turchia, in risposta allo scavo di trincee e all’erezione di barricate da parte di gruppi affiliati al Partito dei lavoratori del Kurdistan (Partiya Karkeren Kurdistan – Pkk), verso la fine del 2015. La maggior parte di queste operazioni sono terminate entro giugno, quando i coprifuoco di 24 ore e l’uso eccessivo della forza, anche con armi pesanti, avevano già provocato centinaia di vittime civili, la distruzione su larga scala delle aree residenziali e lo sfollamento forzato di quasi mezzo milione di persone.

A fine anno erano ancora in corso gli scontri tra il Pkk e le forze turche al di fuori delle aree urbane, così come gli attacchi sporadici del Pkk contro edifici governativi, poiché non c’è stato alcun segno di ripresa del processo di pace interrotto nel 2015. La prospettiva di una nuova trattativa è stata minata da un pesante giro di vite sui mezzi d’informazione curdi, sulla società civile e sull’opposizione politica, anche attraverso l’uso dei poteri di emergenza adottati dopo il fallito colpo di stato di luglio.