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Ci sarebbe bisogno di quell’aria lì, della sala fuori dal reparto di rianimazione

Per uno di quegli imprevisti che capita a noi umani, sempre così caduchi di fronte ai casi della vita, negli ultimi giorni mi capita di frequentare le sale sterilizzate che recintano amici e parenti di malati da rianimare o curare intensivamente. Ci si siede sulle sedie incatenate in fila stando attenti a non tossire con un sussulto che rimbalzerebbe fino all’altro estremo cercando di svicolare da lacrime che si spandono tutte in giro e preoccupazioni che gocciolano dal mento.

Qui, nelle sale dove ci si gioca in qualche centimetro la resa o il salvataggio del proprio caro, l’esterno rimbomba come l’inevitabile corso degli eventi senza riuscire a deviare un discorso nemmeno di fronte alla macchina del caffè. Ogni garza, prelievo, maschera d’ossigeno, misurazione di temperatura o curva dell’umore è più importante di qualche carabiniere corrotto, di qualche chiacchiera da Camera e delle patetiche giustificazioni occidentali di chi è intento ad armarsi e consumare armi per riarmarsi poi di nuovo.

C’è, in quelle sale, una feroce apertura dei pori della sensibilità che ci costringe a esercitare il rispetto che ci si era sclerotizzato in tasca: valutiamo gli sguardi e gli umori con la delicata cura di chi sa che ogni goccia (di dolore o di una bozza di sorriso) sono particolari che segnano la forma del nostro pomeriggio e la tranquillità del sonno successivo. La sala del reparto di rianimazione ci allena di nuovo, anche se ci siamo disabituati da una vita, a riconoscere i tic umani come segnali da cullare con cura, intensi e terrificanti per la loro verità. Si diventa, in quelle sale lì, infinitamente caritatevoli come non avremmo mai potuto pensare di esserne capaci.

Ci sarebbe bisogno di quell’aria lì.

(continua su Left)