Vai al contenuto

La cognizione del buco: #Santamamma recensito su Gli Stati Generali

Una bella recensione di Silvia Bianchi (che ringrazio):

Santamamma di Giulio Cavalli è un racconto autobiografico di spietata sincerità.
Carlo è nato con un buco: adottato all’età di tre anni, cresce da coccolato figlio unico di una famiglia che s’era messa il cuore in pace sulla possibilità di diventare genitori (…), con il comandamento non scritto di essere grato, senza che fosse chiaro a chi. Nel piccolo paese immaginario di Tarrazza, borgo operaio lungo la via Emilia (sette chilometri e ottocentocinquanta metri dal primo semaforo di Lodi, che per noi era Boston), Carlo viene avviato precocemente allo studio del pianoforte e diventa un disciplinato enfant prodige, vincitore di concorsi e piccola celebrità locale, orgoglio dei suoi genitori adottivi. Ma la musica è per lui un’esperienza estraniante, che vive fuori da sé stesso (ho imparato a uscire scendendomi dal naso per sedermi poco distante a guardarmi), come un po’ tutta la sua vita: per soddisfare le aspettative degli adulti che lo circondano si iscrive al liceo classico, si lascia sedurre dalla sua insegnante di pianoforte, infine si trasferisce a Parma per frequentarvi il Conservatorio

E’ lì, lontano dai genitori, che avvengono le sue prime, timide ribellioni: lascia il pianoforte per il violoncello, a volte salta la scuola per suonare insieme agli amici del suo gruppo blues; finchè, giunto all’ultimo anno di liceo e di Conservatorio, decide di abbandonare gli studi musicali e si fa arrestare per aver dato un pugno a un poliziotto, gettando sua madre nello sconcerto (non è più lui, non so più cosa fare. Ma sarà malato?). L’episodio dell’arresto è un momento di svolta nella vita del protagonista: opponendosi all’arroganza dei poliziotti che si prendono gioco dei suoi pavidi compagni, Carlo per la prima volta dà voce allo scontento che lo abita e al quale non sa trovare un nome, cioè la rabbia per l’ingiustizia fondamentale, il torto radicale che ha subìto, il trauma dell’abbandono; smettendo di essere il figlio ubbidiente di sempre (adesso non faccio più il bravo, adesso basta) denuncia la sua verità esistenziale, il suo sentirsi fuori posto e si appropria, finalmente, della sua vita.

Così Carlo, sostenuto dal suo amico Francesco, rinuncia a una tranquilla sistemazione lavorativa e diventa il clown di un piccolo circo condotto da Tairo e Ana, una coppia di Belgrado che diventa quasi la sua famiglia elettiva. Qui avviene l’equivoco: durante uno spettacolo, Carlo coinvolge inconsapevolmente in una gag don Vito Corleone, boss mafioso latitante seduto tra il pubblico, che viene così riconosciuto e arrestato. Da quel giorno, Carlo deve vivere sotto scorta in un luogo protetto; riceve una medaglia al valore dal Presidente della Repubblica e si trova ben presto imprigionato nel ruolo dell’eroe antimafia, con tanto di agente. Viene invitato a lezioni e convegni, diventa il protagonista di un libro e di un film: vive insomma di nuovo un’esperienza alienante, che lo porta alla depressione (mi svegliavo al mattino con un cane nero che mi scoloriva il mondo). Nella metafora del clown, l’Autore ha trasfigurato la sua esperienza di autore e attore teatrale e nell’episodio della cattura casuale del latitante ha rappresentato il suo impegno civile contro la criminalità organizzata della sua regione; ma questi aspetti così salienti della sua vita pubblica diventano secondari nel dipanarsi della sua vicenda interiore, travasata nella storia del suo personaggio.

Carlo ha toccato il fondo e diventa così inevitabile affrontare, finalmente, il suo buco: una telefonata che evoca la sua famiglia di origine è l’espediente narrativo che induce il protagonista a riflettere sulla sua condizione (dell’essere adottati c’è qualcosa che non sta scritto in nessun trattato di psicologia (…): non sapere di chi sei ti sparge dappertutto. (…) Noi, della nostra razza di bimbi appaltati, (…) nasciamo sporchi e passiamo tutta la vita con lo strofinaccio, (…) tutto il giorno, tutti i giorni, a cercare di candeggiare via un buco). Il suo io, muto e sofferente, si incarna nel racconto nella figura di Giuseppe, il suo fratello di sangue adottato in un’altra famiglia, che da dieci anni si rifiuta di parlare e per questo è stato rinchiuso in una clinica psichiatrica. Carlo viene contattato dal padre adottivo di Giuseppe; ma, prima di incontrarlo, decide di cercare la sua madre naturale.

Fino a quel momento Carlo ha sempre preferito non saperne, adagiandosi in un lutto confortevole e autoassolutorio, finendo per abitare sul marciapiede della mia vita. Ora però il bisogno di colmare il suo buco è diventato troppo grande: così, rintraccia l’indirizzo di lei e lo raggiunge, guidando una jeep in affitto (sbriciolando la diga con cui volevo fermare la mia storia). Ma, anche stavolta, la sua madre naturale è un’assenza (Suonai. Non rispose nessuno) e una delusione da risparmiarsi (lascia perdere. Lascia stare. Se posso darti un consiglio, non ne viene fuori niente di buono da questa storia, gli dice l’impiegata del Comune alla quale ha chiesto informazioni).

Non c’è possibile risarcimento che possa venire da fuori: Carlo deve trovare in sé stesso la forza di guarire. Il primo passo (l’inizio della cura del mio buco) lo ha fatto affrontando il suo passato, vivendo la rabbia verso la madre che lo ha abbandonato e scegliendo, a propria volta, di abbandonarla al suo destino; ora deve imparare a dialogare con il suo vero io, prigioniero del silenzio, personificato dal fratello Giuseppe. Carlo ne incontra prima i genitori – il padre rabbioso, la madre affranta, alter ego dei suoi – e poi va a visitarlo nella clinica in cui è ricoverato.

In un monologo struggente, Carlo racconta al fratello ritrovato la sofferenza per il buco che si porta dietro da sempre (il peccato originale di essere stato lasciato), che lo ha spinto a vivere una vita non sua, per senso di colpa; gli confessa di volergli bene e gli spiega il desiderio di condividere con lui il dolore che li accomuna, di scambiarsi le proprie schegge di vita, di incollarsi l’un l’altro. Giuseppe gli risponde con uno sguardo e all’improvviso tutto per Carlo cambia: uscito dalla stanza di mio fratello mi è tornato il mondo a colori. Decide di dimettersi da eroe, rinunciando alla scorta e al ruolo di simbolo dell’antimafia e torna dal fratello che ricomincia a parlare, rivelandogli un dolore identico al suo: da lì ha inizio la loro ricostruzione.

Il messaggio finale del libro è di pacificazione. Non è colpa nostra, Giuseppe, dice Carlo; e anche: io devo chiedere scusa a un milione di persone. Chissà se Carlo riuscirà a perdonare la madre naturale che lo ha abbandonato, così come ha perdonato quella adottiva che non lo ha saputo capire; di certo, alla fine della storia è consapevole di non essere il solo a convivere con un doloroso buco: ho maturato l’idea che davvero sia importante essere gentili con tutte le persone che incontriamo perché ognuno sta combattendo la sua battaglia personale.

Lo stile di Cavalli, brutale e funambolico, impedisce al lettore di prendere le distanze dalla storia e lo costringe a camminare sul filo con lui, sentendo la vertigine di quella voragine interiore squadernata in ogni pagina del racconto. Per questo, giunti all’ultima riga ci si sente stanchi e sollevati, turbati e insieme rinfrancati: come se, tenuti per mano da lui, ci fossimo avvicinati abbastanza per sbirciare dentro al nostro personale buco e avessimo imparato il sentiero per non caderci dentro

(fonte)