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Vendiamo armi e produciamo profughi, li ingoiamo e poi ci sputiamo sopra.

Parlano di “dimostrazione di una capacità di penetrazione e flessibilità dell’offerta nazionale all’estero…” e, a leggerla così, sembra l’apertura di un depliant confezionato per decantare le virtù italiche nel campo dell’artigianato o dell’arte. E invece si parla di armi. Meglio: sono le parole che il governo usa per declamare i successi di un 2016 che ha visto impennare l’export degli armamenti verso (anche) regimi tutt’altro che democratici. Gli stessi regimi che provocano guerra, gente in fuga e rifugiati sulle nostre coste.

Produciamo profughi, li ingoiamo e poi ci sputiamo sopra. 

La Relazione consegnata dal Governo sul commercio e sulle autorizzazioni all’esportazione di armi per il 2016 sottolinea con entusiasmo che le esportazioni italiane di sistemi militari hanno superato i 14,6 miliardi di euro, con un aumento dell’85,7% rispetto ai 7,9 miliardi del 2015. Certo incide molto la commessa di 28 Eurofighter della Leonardo al Kuwait del valore di 7,3 miliardi di euro ma vale la pena sottolineare come l’export globale italiano nel quinquennio 2010-2014 si è attestato mediamente intorno ai 3 miliardi di euro, ma già dal 2015 era giunto ad 8 miliardi di euro.

Ma c’è un punto che sanguina vergogna, su tutto: a chi vendiamo?  Tra gli altri al Kuwait (per 7,7 miliardi), l’Arabia Saudita (427,5 milioni, più degli USA), poi Qatar (341 milioni) e Turchia (133 milioni). La legge 185 del 1990 dice che «l’esportazione ed il transito di materiali di armamento sono vietati verso i Paesi in stato di conflitto armato» in contrasto con le direttive Onu, «verso i Paesi la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione» e verso i Paesi «responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani». Ma la legge, evidentemente, non vale quando si tratta di incassare.

Il caso dell’Arabia Saudita poi è emblematico.

(continua su Left)