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Il patto Renzi-Berlusconi è qualcosa di più di un’ipotesi

Anche se gli amici del PD insistono nel volerci convincere che l’avvicinamento Renzi-Berlusconi sia solo figlio di malelingue e limitato all’accordo sulla legge elettorale i segnali che vanno nella direzione di un “governo della responsabilità”. E allora vale la pena leggere un paio di articoli, tanto per cominciare. E capire.

La prima è una Dagonota che, anche se ironica, meriterebbe di essere presa sul serio:

Il cazzaro Renzi, la “sindrome di Craxi”, il Rosatello elettorale (annacquato) alla tedesca e uno scenario post voto che evoca il brumaio rivoluzionario del Novantadue italiano. Anche alla vigilia di Tangentopoli il leader del Psi era convinto di poter tornare a palazzo Chigi nella primavera del ’92 nonostante la sconfitta subita l’anno prima sul referendum istituzionale sulla preferenza unica indetto da Mariotto Segni.

Con Bettino, novello Garibaldi, che dall’isola di  Caprera invitava gli italiani, inascoltato, ad “andare al mare” e a disertare le urne. Fu invece il trionfo del “Sì” con grandi festeggiamenti al Nazareno allora sede dei promotori della consultazione popolare e oggi quartier generale del Pd. Qui, per la legge del contrappasso, Renzi ha bevuto il calice amaro della disfatta subita al referendum dello scorso 4 dicembre.

Già. Anche dopo la “non vittoria” del Psi alle elezioni politiche del ’92, Bettino era convinto di avere intatte le chances per bissare la sua passata esperienza alla guida del governo. Ma durante quel percorso accidentato, per sua natura (politica), commise alcuni errori.

Il primo fu di poter realizzare l’accoppiata vincente Dc-Psi: lui a palazzo Chigi e Arnaldo Forlani, segretario dello scudocrociato, al Quirinale. Il secondo di aver poi puntato per la presidenza della Repubblica su un diccì anomalo, Oscar Luigi Scalfaro (sponsorizzato da Marco Pannella), su cui confidava (anzi era sicuro) che gli avrebbe dato l’incarico di formare il nuovo governo. Non andò così.

Le analogie tra l’attuale segretario del Pd (residuale) e l’ex leader del Psi non riguardano, ovviamente, soltanto le convergenze storiche e la statura politica dei due, tutta a vantaggio di Bettino fino al giorno della sua rovinosa caduta. Nel 1976, arrivato alla guida di un partito al lumicino nelle assise del Midas (ci resterà fino al 1993), Craxi riuscì a ridare dignità ai socialisti e dopo sette anni e per consensi incrementati, andò a guidare il governo.

Il ducetto di Rignano, almeno agli occhi dei transfughi del Nazareno, dello stesso Berlusconi (non pentito neanche dopo la telefonata con Matteo), del centro destra e dei Poteri marciti, invece, ha il solo merito di aver minato nelle fondamenta (iscritti e voti) l’unico partito organizzato sopravvissuto alla bufera politico-giudiziaria di Tangentopoli. E di aver provocato, infine, l’ennesima scissione a sinistra strizzando l’occhio all’ex nemico Berlusconi.

“Qual è il profilo culturale e strategico della stagione convulsa e precipitosa che si sta aprendo”, s’interroga Ezio Mauro su la Repubblica. “E in nome di quale mandato Renzi consegna il Pd appena riconquistato all’intesa con la destra”, aggiunge l’ex direttore.

Sul Corriere, Massimo D’Alema aggiunge ironico: “Il renzismo non è stato che il revival del berlusconismo… Mi stupisco che Berlusconi non si rivolga alla Siae per avere i diritti d’autore”. Non è questo, onestamente, un risultato da medaglia al valore ideale per l’ex premier incoronato da Re Giorgio Napolitano (senza un passaggio istituzionale) e cacciato a furor di popolo nel suffragio referendario del 4 dicembre 2006.

E da quel giorno, come successe a Bettino Craxi dopo la cacciata per mano della Dc da Palazzo Chigi (aprile 1983) e fino alla sconfitta nella consultazione promossa da Mariotto Segni per l’abolizione del proporzionale (aprile 1991), il cazzaroRenzi sogna anche lui la rivincita (remuntada alla Messi) per tornare alla guida del governo.

Ecco spiegata la “sindrome di Craxi” che ha colpito Matteo sulla via del ritorno a palazzo Chigi. Con la stessa impazienza – ahimè cattiva consigliera -, di andare al voto in autunno. Prima cioè della fine anticipata della legislatura (aprile 2018). E senza nuove regole elettorali, ancora bloccate in Parlamento.

E, soprattutto, contro la volontà (ferma) del capo dello Stato. Eppure, con rare eccezioni, i giornaloni continuano ad avvalorare le confuse ed estemporanee sortite dell’omino in fregola del Nazareno. Sulle pagine dei quotidiani (e in tv) si spaccia per “modello tedesco” una nuova legge elettorale che avrebbe pure il sostegno di Silvio Berlusconi.

“Al momento non c’è un modello tedesco sul tavolo; c’è solo il proporzionale un po’ all’italiana nobilitata con il richiamo alla stabilità teutonica”, ha osservato Stefano Folli su la Repubblica. Ingannare i lettori (o i teleutenti) solo per essere fedeli all’ultimo capataz politico? Ah saperlo…

Il secondo, invece, viene dalle pagine dell’edizione di oggi de Il Foglio che propone un vero e proprio “manifesto possibile per il Partito della nazione:

Le stelle si sono allineate, il percorso è diventato chiaro e improvvisamente, ora, sono tutti d’accordo. D’accordo sulla modalità, sulla tempistica, sui numeri, sulle ragioni e sulla data del voto. Salvo sorprese che non ci dovrebbero essere la diciassettesima legislatura finirà entro l’ultima settimana di luglio e se tutto andrà nella modalità concordata da Matteo Renzi e Silvio Berlusconi la direzione è segnata. Ieri pomeriggio Forza Italia ha presentato i quattro emendamenti che trasformeranno la legge elettorale attualmente in discussione alla Camera in commissione Affari costituzionali in una legge sul modello tedesco (soglia di sbarramento al cinque per cento sia alla camera sia al Senato). Martedì, in direzione, il segretario del Pd spiegherà perché il sistema tedesco è l’unico che può essere approvato in tempi rapidi e con numeri sicuri sia alla Camera sia al Senato. Nelle ore successive i due leader delle opposizioni (Matteo Salvini e Pier Luigi Bersani) daranno il proprio ok alla proposta. La legge dovrebbe essere votata alla Camera entro il 10 giugno. Berlusconi, intanto, ha dato al Pd la sua disponibilità a votare il testo entro il 30 giugno anche al Senato.

Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha comunicato una sua non preclusione allo scioglimento anticipato delle Camere per arrivare al voto già il prossimo 24 settembre. Le massime istituzioni europee, compreso il vertice della Bce, non hanno mostrato particolare preoccupazione di fronte all’idea di allineare il voto italiano a quello tedesco mettendo la prossima legge finanziaria nelle mani di un futuro governo che anche grazie alle legge elettorale tedesca non ha speranze di essere guidato da una maggioranza grillina. Molti ministri del governo (compreso Calenda) sono stati informati da Renzi in persona della possibilità concreta di fine anticipata della legislatura. Il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, è pronto a seguire l’indicazione del segretario del Pd e a dimettersi da capo del governo una volta approvata la legge elettorale (il pretesto per interrompere la legislatura potrebbe essere offerto dalla legge sui voucher che, se non verrà votata dagli scissionisti del Pd né alla Camera né al Senato, permetterà al Pd di certificare la morte della maggioranza). E anche molti investitori stranieri si stanno convincendo che il voto anticipato, come hanno riconosciuto ieri in un paper gli analisti di Citigroup, sia per l’Italia la soluzione migliore per evitare che sia un governo debole ad affrontare nei prossimi mesi, attraverso una Finanziaria preelettorale, i dossier delicati con cui dovrà fare i conti il nostro paese.

Le stelle sono dunque ormai allineate e il percorso sembra essere finalmente chiaro, ma al contrario di quello che tenteranno di dimostrare Renzi e Berlusconi in campagna elettorale il loro ritorno al dialogo è destinato a essere qualcosa in più di una semplice condivisione sulla soglia di sbarramento o sul numero di collegi. È destinato a essere l’embrione di un patto di sistema che solo la vittoria del Sì al referendum costituzionale avrebbe potuto evitare. E il paradosso è che tutti coloro che soprattutto a sinistra hanno votato No al referendum per evitare la nascita di un Partito della nazione ora dovranno rassegnarsi all’idea che il Partito della nazione sta nascendo davvero e sta nascendo grazie alla vittoria del No del 4 dicembre.

Con una legge elettorale sul modello tedesco – grazie alla quale Renzi e il Cav. avranno la possibilità di replicare in piccolo il modello della rottura macroniana presentandosi di fronte agli elettori senza essere ammanettati né con una melanconica sinistra a sinistra del Pd e né con una Lega che grazie a Salvini è più vicina al modello Cinque stelle che al modello Ppe – i neo nazareni hanno già calcolato che avranno i numeri per dar vita a un governo della nazione. E basterà che Pd e Forza Italia arrivino al 42 per cento dei voti (i sondaggi di Berlusconi dicono che la somma dei due partiti oggi è intorno al 45 per cento ed è destinata a crescere ancora) per mettere insieme una grande coalizione sul modello tedesco (magari con qualche innesto dalla Lega più vicina a Maroni e dalla sinistra più vicina a Pisapia). Ma per arrivare davvero a quella percentuale, non impossibile, Pd e Forza Italia hanno la necessità di concentrarsi non solo sulle soglie di sbarramento e sulla composizione futura dei collegi ma sull’unica carta possibile in loro possesso per evitare che la nascita del nuovo Partito della nazione si trasformi in un regalo alle forze anti sistema. In campagna elettorale, quando ci sarà, non basterà costruire una diga tattica di resistenza al grillismo. Sarà necessario dimostrare che l’alternativa agli anti sistema si costruisce opponendosi a ogni cialtroneria populista con quello che Macron ha giustamente definito il “coraggio della verità”. E la verità oggi è non avere paura di dire le cose come stanno sull’economia, la concorrenza, il fisco, la produttività, la giustizia, l’Europa, il lavoro, e non aver paura di far proprie, seppur da posizioni diverse, le uniche misure che possono permettere all’Italia di tornare a crescere.

Il Foglio ha presentato qualche settimana fa un suo manifesto del buon senso – sottoscritto da Silvio Berlusconi – con molti di questi punti, e attendiamo di sapere cosa ne pensa Matteo Renzi. Ma sottoscrivere un memorandum di buon senso preelettorale non è una fissa del nostro giornale. È l’unico modo per mostrare il volto sfascista, sovranista e ridicolmente anti produttivo delle forze anti sistema e non farsi trovare impreparati se davvero si andrà a votare alla fine di settembre. La data segnata sul calendario da Renzi e Berlusconi è il 24 settembre. La successiva legge di Stabilità andrà fatta entro il 16 ottobre. E per evitare che una legge di Stabilità fatta dal nuovo governo sia più pasticciata di quella fatta da questo governo conviene che Renzi e Berlusconi, una volta portata a casa la legge elettorale, trovino un modo per mettere insieme da subito le idee giuste per governare il paese. Firmare il memorandum del Foglio sarebbe un primo passo. Mettere insieme già in questa legislatura dieci misure per garantire la solidità finanziaria del nostro paese, anticipando così con un disegno di legge la prossima legge di Stabilità (il Portogallo ha seguito una strada simile prima delle ultime elezioni), sarebbe il modo migliore per mettere in sicurezza l’Italia, rassicurare i mercati nella fase elettorale e dimostrare che le forze anti populiste si possono combattere senza aver paura di mettere in campo l’unica arma possibile per sconfiggere i campioni delle bufale: il coraggio della verità.