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«Testimonio contro la mafia ma nessuno mi protegge»: la mia intervista a Angelo Niceta

(pubblicata sul numero di Left in edicola la scorsa settimana)

I PM hanno chiesto per lui lo status di testimone di giustizia ma è stato bollato come “pentito” e abbandonato. Anche se non è indagato per mafia. A colloquio con Angelo Niceta.

Angelo Niceta ha 46 anni e aveva di fronte tutta una vita con le comodità della peggiore borghesia palermitana, quella che puzza di massoneria e rapporti endemici con Cosa Nostra e che spesso assicura denaro, entrature politiche e riconoscimento sociale. I Niceta a Palermo sono un cognome che conta: il loro grande magazzino nella centralissima via Roma è stato il primo di tutta la Sicilia nel settore tessile e per la biancheria della casa. Lì, oltre al commercio, i famigliari di Niceta intessevano rapporti con Bernardo Provenzano, i fratelli Carlo, Giuseppe e Filippo Guttadauro e persino con Matteo Messina Denaro: il gotha di Cosa Nostra Siciliana. Angelo, presa coscienza dei rapporti pericolosi che si consumavano nell’azienda di famiglia, ad un certo punto ha deciso di dire basta e di parlare con i magistrati.
Ma quello che doveva essere il momento della liberazione (e della protezione) si è trasformato in un incubo.
A Palermo i magistrati Nino Di Matteo e Pierangelo Padova hanno chiesto per lui lo status di testimone di giustizia, per aver reso dichiarazioni come persona informata sui fatti. La richiesta inizialmente è stata accolta dalla Commissione Centrale del Ministero dell’Interno. Oggi però, pur non essendo mai stato indagato per mafia, Angelo si ritrova (con la moglie e i loro quattro figli) bollato come “collaboratore di giustizia”, abbandonato e senza nessuna protezione.

Allora, Angelo, innanzitutto: come stai?
Fisicamente sto ancora bene. Per il resto non so.

Andiamo con ordine: come può una persone che ha denunciato i rapporti mafiosi di alcuni suoi famigliari ritrovarsi bollato come “pentito” senza mai avere avuto a proprio carico né una condanna né un’indagine?
È un ricatto di Stato. Quando in località protetta mi arrivò comunicazione che non ero più testimone di giustizia decisi che non avrei potuto accettare questo sopruso e rinunciai al programma. Il Ministero degli Interni mi ha scritto che aveva preso atto della mia rinuncia e che avrei potuto presentare ricorso al TAR per chiedere tutta la documentazione perché, l’hanno scritto loro, non c’era nessun vincolo di segretezza. Ovviamente ho presentato la richiesta d’accesso alla mia documentazione per valutare la situazione e presentare il ricorso, loro avevano due mesi per rispondere e non l’hanno mai fatto. Ho presentato ricorso al TAR Sicilia: Io non ho precedenti penali, non ho indagini, non ho nulla. Conosco tanti fatti semplicemente perché vivevo in quella famiglia, tant’è che nei processi in cui sono stato chiamato mi sono sempre presentato senza avvocato come “persona informata sui fatti”. Pochi giorni fa mi hanno notificato una riunione successiva del Ministero che smentisce il primo decreto dicendo che il mio status è protetto da segreto di Stato. In pratica, si smentiscono da soli. E a questo punto perderò il ricorso al TAR.

Ma cosa è segreto? Perché è segreto? E il diritto di difesa? La Costituzione?
Niente, io non ho diritti. E poi aggiungono una nota beffarda “se vuole può fare ricorso al TAR”. Un paradosso giurisprudenziale.

Le tue dichiarazioni sulle frequentazioni mafiosi di alcuni membri della tua famiglia, tuo zio e i tuoi cugini in particolare, sono ritenute credibili e riscontrate dalla Procura di Palermo. Eppure ora ti ritrovi in questa condizione. Com’è ora l’aria intorno a te?
Mi arrivano consigli vari, da molta gente, che mi invitano ad “ammorbidirmi” anche da insospettabili persone che fanno riferimento ad associazioni antimafia. Ora a qualcuno interessa delegittimarmi. Oppure sperano che io mi fermi. C’è un processo a Caltanissetta relativo a un mio presunto fallimento (di una società in cui io ho solo messo dei soldi) che si sta svolgendo in un modo terribilmente superficiale.

Nessuna gratitudine quindi per avere svelato indicibili accordi?
Finché parli dei cattivi sono tutti contenti ma quando parli di accordi tra la criminalità organizzata, la borghesia e il tribunale tutto diventa un tabù. Ormai vieni ammazzato non più con le pistole ma socialmente ed economicamente. Agiscono sui figli e sui famigliari. Io ogni tanto vorrei rimanere in una grotta da solo. Loro sanno dove colpire. Io sono isolato, senza soldi e senza lavoro. Eccomi qui.

Che tipo di attacchi ritieni di subire?
Pensa per esempio alla Prefettura di Palermo: se io davvero sono un collaboratore di giustizia, come mi dice lo Stato, allora sono l’unico pentito che non è protetto. E non parlo di scorta: nella mia abitazione non c’è nemmeno una telecamera per controllare chi entra e chi esce. La Prefettura non ha mai risposto alle nostre innumerevoli raccomandate. E nemmeno a quelle di molti cittadini che si sono occupati del mio caso.

Parliamo delle tue denunce. Chi sono veramente i Niceta?
I Niceta qui a Palermo erano stati sempre considerati imprenditori di successo – la borghesia palermitana è sempre stata ipocrita e legata a questo sistema. Per farti capire chi sono, al matrimonio di mio cugino Massimo ci trovavi la famiglia Guttadauro (considerata dagli inquirenti famiglia di mafia, con innumerevoli condanne) che discuteva amabilmente di centri commerciali e altre situazioni. Mio padre si è sempre occupato di tessile. Mio zio Mario ha diversificato in tanti altri settori dove c’erano soci occulti appartenenti a Cosa Nostra: dai calcestruzzi alle televisioni, alle cliniche private e alle attività finanziarie. I loro referenti principali erano la famiglia Guttadauro e, per parentela, Matteo Messina Denaro. Per un periodo anche i fratelli Graviano, finché non furono arrestati. I nomi dei figli di mio zio sono stati dati in onore della famiglia Guttadauro e di Matteo Messina Denaro. Nelle intercettazioni, per Giuseppe Guttadauro mio cugino Massimo era il suo “figlioccio“. Loro erano di casa. Non erano semplici prestanome ma erano materialmente un gruppo compatto. E nel negozio erano spesso presenti i più importanti personaggi del mandamento di Bagheria: Pietro Loiacono, Pino Scaduto, Leonardo Greco. Tutti questi, parlo di metà anni ’80, quando Giuseppe Guttadauro usciva dal carcere brindavano insieme, anche nel magazzino di via Roma.

Tuo padre prese le distanze?
Mio padre non li tollerava. Una volta in particolare si incazzò perché non si erano ancora divisi le quote con il fratello e cacciò i mafiosi in malo modo. E loro erano alterati e dissero a mio zio Mario: “tuo fratello una parte del genere a noi non ce la deve fare“. Non venivano semplicemente a prendere il caffè, erano proprio soci in affari: anche al matrimonio di Massimo, nel 2008, abbiamo assistito alla conversazione sul centro commerciale di Brancaccio, con la planimetria in mano, e loro scherzavano sui terreni che avevano venduto tramite un prestanome. “Abbiamo già incassato 40 milioni di euro” dicevano e aggiunsero: “Già li masticammo tutti perché la borsa è una sola e noi siamo assai”. Mio padre prende le distanze nel 1987. Decise di regalare tutte le “società sospette” a suo fratello. Rimase socio delle due società immobiliari che non facevano operazioni.
Io mi ritrovo sul lastrico perché all’altra famiglia interessava liberare i locali di via Roma e volevano ottenere la quota di mia proprietà della società Olimpia che era l’unico bene materiale dove ero socio con loro, e quindi risultavo d’incaglio. Lo scopo era liberarsi di me come socio e quindi fare fallire la società e bloccarmi. E poi mi propongono una serie di trattative come se fossero amichevoli. Un giorno trovai Carlo Guttadauro all’aeroporto di fianco a me, anche in aereo nella fila accanto, che mi spiegava che conveniva mettersi d’accordo. Poi ci sono state varie riunioni dove mi si chiedeva di essere generoso con la famiglia e poi loro sarebbero stati generosi con me.

Quando hai cominciato a parlare con i magistrati tutta la tua famiglia ne è rimasta coinvolta?
Uno dei miei figli è stato campione del mondo di go-kart ed era in procinto di entrare nel Junior Program della McLaren: nella sua carriera batteva regolarmente Verstappen, che oggi è considerato la più grande promessa della Formula 1, e ha ottenuto anche la medaglia d’oro al merito sportivo. Alla fine è dovuto rientrare a Palermo per il programma di protezione. Mia figlia viene continuamente avvicinata dai figli di pregiudicati molto conosciuti. All’altro mio figlio gli hanno vietato di entrare in alcune botteghe della zona in cui viviamo, che da anni avevano un conto aperto: noi ormai siamo diventati gli immondi. Nessuno ci fa lavorare e anche i familiari di mia moglie ci hanno abbandonati.

E i tuoi cugini?
Loro continuano a comportarsi con la certezza di essere impuniti.

La politica?
Hai mai visto la politica prendere posizione contro se stessa? In questa storia c’è un pezzo importante della politica siciliana e nazionale. Ora non posso dire di più. Ricordo che una volta vennero Salvo Lima e Ciancimino a proporre mio padre come sindaco di Palermo. Lui ovviamente rifiutò. E Cuffaro mi disse di non poter sponsorizzare mio figlio quando correva, perché mi disse che avrebbero detto che era “il pilota della mafia”. Era anche quello un modo per dirmi di fare il bravo.

Il futuro?
Il futuro? Se continuano a ricattarmi realmente moriremo. Non posso vivere di nulla. Sono bloccato da tutti i lati. Continuano a marciare su questa condizione assolutamente ingiusta di collaboratore di giustizia. C’è uno Stato che non rispetta le regole. Io confido nella parte sana che rimedi agli errori compiuti. E che valuti attentamente tutto quello che ho dichiarato di fronte ai magistrati. Più di questo ora non posso fare.