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Huffington Post recensisce “Mafie maschere e cornuti”

(di Milene Mucci, fonte, la scheda dello spettacolo è qui)

Il teatro di Giulio Cavalli, un’amara risata sulla Mafia per una matura riflessione

A pochi metri dal palco, seduti in platea le “parole” ti piovono addosso. Dirette, come missili, come schegge di verità che, altrove, devi intravedere e faticosamente cercare. Ecco, questo realizzi immediatamente mentre ascolti Giulio Cavalli dire sul palcoscenico che “la parola contro le mafie funziona”. Questo realizzi quando ascolti che il teatro fa paura, il teatro dà fastidio.

Il suo teatro, dà fastidio. Perché il teatro, quello fatto cosi, è diretto, senza mediazione, senza nessun possibile, conciliatorio, tramite. Noi in platea e lui sul palco, che racconta. Non “solo” nomi e cognomi, verissime storie. Racconta di parole che ci hanno “portato via”, snaturandole, come “onore”per esempio.

Racconta di parole come armi, “antimafia culturale” per smontare e deridere quello che ci fanno credere invincibile ed invece non lo è.

“Non bisogna avere paura di ciò che non si conosce ma bisogna temere ciò che crediamo vero e invece non lo e'” ci dice, citando Mark Twain, inoltrandosi come un giullare del ‘500 contro il potere, nello smontare icone mafiose, da Riina a Provenzano. Facendoci capire così, fra un sorriso ed una battuta, che quello che appare non è che dietro, neanche molto distante, niente è a caso e il quadro è molto, molto più grande.

Ci fa capire che “commemorare” è praticare memoria ed è praticare memoria ciò che dà fastidio, così come dà fastidio riderne di mafia e di boss perché “la risata sbriciola ciò che ci hanno fatto sempre credere vero”, compresi certi miti.

Così scopriamo che Provenzano quando viene arrestato viveva in mezzo a cacche di capre, pentolini incrostati, collezioni di santini, pasta senza glutine e non nel bunker di Guerre Stellari che l’immaginario ci farebbe credere.

O che è inutile parlare di minacce ricevute perché fa, invece, bene sorridere, demolendola, sulla bara inviata in teatro e rivenduta perché lui, Giulio il destinatario, non sapeva dove sistemare.

Insomma, durante questa “giullarata” di “Mafie, maschere e cornuti” che sta andando in scena con ascolti storie che sono cresciute da sole, nonostante il silenzio complice e ignavo di Stato, silenzio che tutti tranquillizza e rassicura.

Storie come il funerale “oscenamente privato” di Ambrosoli a Milano, sepolto in fretta d’estate solo con la moglie, i figli e l’amico maresciallo della Guardia di Finanza, o quella dei nomi che non si possono fare nelle storie dei mercati ortofrutticoli o quella dimenticata, e ancora da chiarire, di Bruno Caccia, magistrato ucciso a Torino nel 1983 nell’attimo di libertà in cui passeggiava col cane.

Storie come quella di Denise, figlia di Lea Garofalo o di altri testimoni di giustizia, gente che in Italia troppo spesso deve sparire, mimetizzarsi, dimenticare la propria vita invece di poterla riprendere orgogliosamente in mano, come sarebbe naturale dopo tanto coraggio.

Perché “siamo un paese che si innamora delle fragilità sbagliate”, che non sa proteggere chi merita,un paese che ci fa intendere le intercettazioni come pratica brutale contro la privacy dei potenti “, un paese dove “se hai uno spettacolo antimafia non esci neanche sul gazzettino della parrocchia, mentre se sei al 41 bis ti ascoltano”.

Insomma, il tempo passa veloce mentre Giulio e Francesco Spina, il suo musicista, sono sul palco.

Passa veloce mentre ti scorrono nella mente le immagini della tua città, delle tante città in Italia dove vedi materiaizzati quei soldi di cui sta raccontando, quei “soldi che non devono avere più la forma di soldi”, che diventano ristoranti inspiegabilmente sempre vuoti, centri commerciali stranamente uno accanto all’altro, bar, casermoni di appartamenti deserti o file di capannoni fantasma in aeree industriali di città impoverite.

Ritornano a bomba queste parole nella nostra mente e ci toccano proprio per la semplicità estrema, la forza con cui sono dette. La stessa con cui dobbiamo trattenerle. Perché è un dovere farlo, un dovere portarsele a casa.

Un dovere ricordare quella seconda parte, dimenticata e così poco in luce, dell’art. 4 della nostra Costituzione che ci viene ricordata.

Quella sommersa dalla prima, così fondamentale sul valore del lavoro ma in cui si recita straordinariamente che come cittadini abbiamo il dovere di svolgere secondo le nostre possibilità “un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”!

Il dovere. Insomma, dove ci viene detto chiaramente che “l’indifferenza è incostituzionale” e che è un dovere, quindi ,essere di parte, scegliere da che parte stare. Essere “partigiani”, sempre ,ancora, nel senso autentico della parola.

Essere partigiani chiedendosi cosa abbiamo fatto e cosa facciamo, alla fine, per Denise, per Lea e per tutte queste altre storie che commemoriamo e che ci sono state raccontate.

Si ritorna a questo teatro, che poi teatro alla fine poi non è, perché vivo vero, irridente e demolitore. A questo teatro che ” funziona solo se ce ce lo portiamo a casa”.

Le luci si spengono, la platea si svuota, la convinzione che Giulio ce l’abbia fatta anche stasera a lasciare ancora qualcosa. La capacità di deridere quello che ci fanno vedere e di cercare, invece, seriamente ed ogni giorno quello che ci nascondono.

Insieme all’immagine evocata che, prima o poi, dal fondo della platea si alzi Denise, la figlia di Lea, che salutandoci serena possa dire: “Io sono qui. E sono IO”.

Semplicemente.