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Sul reato di tortura si misura la credibilità di un Paese

(una lettera da leggere e di cui farsi carico)

Caro direttore,
dopo anni di vani tentativi di introdurre il reato di tortura nel codice penale, il 17 maggio scorso il Senato ha modificato il testo che gli era pervenuto dalla Camera, partorendo un contorto groviglio giuridico che torna dunque a Montecitorio.

Occorre innanzitutto sgomberare il campo da un equivoco (che qualcuno ha alimentato ad arte). Il reato di tortura non è diretto ad ostacolare il lavoro delle forze dell’ordine! La sua finalità è unicamente quella di sanzionare penalmente la tortura, ovvero l’inflizione intenzionale di sofferenze acute ad una persona. Difatti quello previsto dall’attuale disegno di legge è un reato comune (punisce cioè la tortura anche quando viene commessa da privati), aggravato nel caso del pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni.

Per definizione, dunque, la tortura non riguarda lesioni cagionate nell’esercizio legittimo della forza, che tale è quando risulta necessario e se messo in atto in modo proporzionato e con professionalità. La previsione contenuta nel testo modificato, secondo cui il reato di tortura non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti, può ritenersi ammissibile se essa venga intesa in linea con l’articolo 1 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, il quale esclude dolore o sofferenze risultanti da sanzioni legittime.

La tortura è altra cosa, sempre che non si voglia dare alle forze dell’ordine la possibilità di infliggere intenzionalmente sofferenze acute. Ci rifiutiamo però di credere che i nostri parlamentari e gli stessi vertici delle forze dell’ordine, nell’interesse della dignità della loro divisa e del pieno sostegno dell’opinione pubblica per il loro fondamentale servizio, vogliano abbassarsi ad un simile livello.

Ciò premesso, il testo modificato approvato dal Senato è una informe creatura giuridica. Tra l’altro, la definizione di tortura recepita dal Senato è contorta e illogica, soprattutto dove prevede che il fatto è punibile “se è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”. In particolare, il requisito (aberrante) di “più condotte” condurrebbe all’assurda conseguenza di escludere, ad esempio, la rilevanza penale come “tortura” di un’unica condotta protratta nel tempo.

Ancora, il testo modificato limita in modo inaccettabile l’ipotesi della tortura psicologica, esigendo che il trauma psichico sia verificabile: che cosa significa “verificabile” quando la vittima riesca a dimostrare di essere stata sottoposta a sevizie psicologiche qualificabili come tortura?

Infine, il testo modificato tace in materia di prescrizione, laddove il reato di tortura dovrebbe essere accompagnato da un termine di prescrizione lungo o, meglio ancora, andrebbe reso imprescrittibile.
Spetta dunque alla Camera di rimediare alle mancanze più gravi del pessimo testo varato dal Senato, a cominciare dalla definizione del reato di tortura, che deve essere chiara e rigorosa. Basterebbe del resto adottare una definizione essenziale (del genere: “chiunque, intenzionalmente e agendo con crudeltà, cagiona tortura …”, con l’eventuale aggiunta di una clausola di esclusione per sanzioni legittime analoga a quella contenuta nell’articolo 1 della Convenzione delle Nazioni Unite). Se lo volessero, deputati e senatori, con l’impulso della presidente Boldrini e del presidente Grasso, potrebbero benissimo riuscire a varare in tempi rapidi un reato di tortura all’altezza di un paese civile. A loro ci permettiamo di ricordare che:
a) la tortura è una delle violazioni dei diritti umani più gravi – per certi versi la più abominevole – e il nostro sistema di prevenzione e di repressione penale è privo di un deterrente efficace senza un reato configurato in termini seri;
b) l’Italia si è impegnata a farlo da anni e anni, sia di fronte alle Nazioni Unite, sia a livello europeo;
c) senza un reato di tortura serio non possiamo né estradare dei torturatori arrestati in Italia né perseguire, in quanto tali, atti di tortura commessi all’estero ai danni di un cittadino italiano.

Ne va palesemente della serietà, e quindi della credibilità, dell’Italia, in Europa e nel mondo.

Antonio Bultrini, Associato di diritto internazionale nell’Università di Firenze;
Pasquale De Sena, Ordinario di diritto internazionale nell’Università Cattolica di Milano e membro permanente del Comitato Interministeriale per i Diritti Umani;
Filippo di Robilant, membro del Comitato esecutivo dell’Agenzia per i diritti fondamentali dell’Unione europea;
Flavia Lattanzi, già giudice del Tribunale speciale per l’ex-Jugoslavia e membro permanente del Comitato Interministeriale per i Diritti Umani;
Giuseppe Nesi, Ordinario di diritto internazionale nell’Università di Trento e membro permanente del Comitato Interministeriale per i Diritti Umani;
Tullio Padovani, avvocato, già Ordinario di diritto penale alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa;
Vladimiro Zagrebelsky, già giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo