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“Nell’inferno di via d’Amelio un uomo dei Servizi chiedeva della valigetta di Borsellino”

L’articolo (importantissimo) di Salvo Palazzolo per Repubblica:

Di quel pomeriggio in via d’Amelio ricorda l’odore acre dei copertoni bruciati, le auto in fiamme, le urla. Ricorda i volti degli anziani e dei bambini che ha aiutato a uscire dai palazzi sventrati. Ricorda tanto fumo. E all’improvviso, un uomo ben vestito, con una giacca, che cosa strana un uomo con la giacca dentro quell’inferno di fumo e fiamme. «Si aggirava attorno alla blindata del procuratore Paolo Borsellino – racconta l’ispettore Giuseppe Garofalo, uno dei primi poliziotti delle Volanti ad arrivare in via d’Amelio – chiedeva della borsa del giudice, l’ho subito fermato. “Scusi, chi è lei?”. Ha risposto: “Servizi segreti”. E mi ha mostrato un tesserino. L’ho lasciato andare, capitava spesso che sulla scena dei delitti di Palermo ci fossero agenti dei Servizi, non mi sono insospettito. Ma adesso mi chiedo chi fosse davvero quell’uomo».

L’ispettore Giuseppe Garofalo voleva fare l’archeologo da ragazzo. Ma ha finito per seguire le orme del padre, il maresciallo Garofalo è stato per quarant’anni una delle colonne portanti della squadra mobile di Ragusa. Fa il poliziotto anche il fratello di Giuseppe, e pure sua moglie. «Io l’università l’ho fatta alla sezione Omicidi della squadra mobile di Palermo – sussurra – anni difficili, quelli. Era il 1989. Le corse da una parte all’altra della città, a raccogliere cadaveri e misteri, troppi misteri a Palermo. E un giorno, l’incontro con il giudice Falcone, nel suo ufficio bunker al palazzo di giustizia. Alla fine, mi strinse la mano e mi disse: “In bocca al lupo per la sua carriera”».

Quel pomeriggio del 19 luglio 1992, Giuseppe Garofalo è il capopattuglia della volante 32. «Potevamo essere spazzati anche noi in via d’Amelio, perché generalmente la pattuglia faceva da apripista alla scorta di Borsellino. Ma quel pomeriggio non fummo chiamati dalla centrale operativa per accompagnare il giudice a casa della madre, chissà perché». Quando un boato squarcia Palermo, alle 16,58, la questura manda subito la volante 21. «Si pensava all’esplosione per una bombola di gas. Noi eravamo a Mondello, dico all’autista di stringere. E arriviamo pochi attimi dopo la 21. Non c’è nessuno in quella strada avvolta dal fumo». Il primo pensiero è per gli abitanti dei palazzi di via d’Amelio, che sembrano i palazzi di una zona di guerra.  «Ci siamo lanciati dentro, non abbiamo pensato che potessero esserci dei crolli, c’era gente insanguinata per le scale. Ricordo che abbiamo soccorso la mamma di Borsellino. Poi, io sono sceso in strada, di corsa. Il capo pattuglia della 21 stava già accompagnando in ospedale il superstite della scorta, Antonino Vullo. Io mi aggiravo in quell’inferno. Su un muro c’erano i resti di un collega, per terra la sua mitraglietta M12 sciolta per il terribile calore dell’esplosione. Per terra, quello che restava del procuratore Borsellino».

In via d’Amelio cominciano ad arrivare decine di persone che camminano sui reperti, sui resti, su tutto ciò che potrebbe costituire una traccia per arrivare agli stragisti. «All’improvviso, quasi senza accorgermene – così continua il racconto di Giuseppe Garofalo – mi ritrovo davanti quell’uomo ben vestito che chiede della borsa del giudice. E’ un attimo, un frame nella mia testa. Oggi, quell’uomo con la giacca è una persona che resta senza volto, i ricordi sono confusi». I magistrati di Caltanissetta hanno già ascoltato Garofalo, gli hanno anche mostrato diverse fotografie. Ma non è emerso nessun volto in particolare. «Quell’uomo è un fantasma – dice ora l’ispettore – e quel pomeriggio in via d’Amelio un incubo. Per un mese non riuscì a dormire. E in tutti questi anni non sono più voluto tornare in quei luoghi. Poi, due anni fa, mia figlia mi chiese di accompagnarla in via d’Amelio, le ho raccontato cosa avevo vissuto». Giuseppe Garofalo è poliziotto ormai di esperienza, ma ancora si commuove quando rievoca i suoi giorni a Palermo.

Alla Mobile, il suo dirigente fu Arnaldo La Barbera, il superpoliziotto adesso al centro della bufera sul depistaggio delle indagini sulla strage Borsellino. «Io non so quello che è successo – dice l’ispettore Garofalo – tutti siamo fallibili, ma quando io ero alla squadra mobile La Barbera era un esempio per tutti noi. Viveva praticamente in ufficio, ricordo di quando fece pulizia, qualche mese dopo il suo arrivo, buttando fuori gente che riteneva collusa o comunque avvicinabile». Un altro mistero. «Io ho fiducia che la verità un giorno la sapremo – dice Giuseppe Garofalo – dobbiamo avere fiducia nelle istituzioni, la magistratura e le forze dell’ordine, che questa verità non hanno mai smesso di cercare, per onorare i nostri morti».