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«Sul cavallo bianco»: il ricordo di Tiziano Terzani. Di Ferruccio De Bortoli.

(il testo che Ferruccio de Bortoli dedicò alla memoria di Tiziano Terzani sul Corriere della Sera del 30 luglio 2004)

«Ho visto che c’ è un bel posto sotto il mio albergo, vagamente orientale, prendiamoci un tè..». Tiziano Terzani non veniva volentieri a Milano. Ma quella volta, due anni fa, doveva presentare Lettere contro la guerra, edito da Longanesi, il libro che raccoglieva i suoi articoli apparsi sul Corriere. Si rifugiava al Manin, con la vista sui Giardini Pubblici. Era una giornata buia con una pioggia sottile e sporca. Telefonò poco prima dell’ appuntamento, la voce un po’ turbata. «Senti, non vediamoci in quel posto, servono dell’ orrendo sushi, c’ è una musica soffusa ma infernale, tanti ragazzi incravattati…».

Terzani amava l’Oriente ma non conosceva i posti orientali alla moda, né il rito dell’ happy hour. Scegliemmo il bar dell’albergo.

Terzani si presentò in un completo bianco di maestosa bellezza, con i capelli raccolti dietro la nuca, la barba curatissima. Un’eleganza persino civettuola. Un vestito di ottimo taglio, lacci al posto dei bottoni, revers arrotondati. L’ abito doveva essere in armonia con il corpo e con l’ ambiente. Un lampo di luce in un interno milanese.

Nel dolore per la morte di un collega e di un amico mi vengono in mente i passi del suo ultimo libro Un altro giro di giostra, in cui racconta la sua lotta contro il cancro. «Mi parve che tutta la mia vita fosse stata una giostra, fin dall’ inizio mi era toccato il cavallo bianco e su quello avevo girato e dondolato a piacimento, senza che mai, mai qualcuno fosse venuto a chiedermi se avevo il biglietto». Terzani non aveva, come tutti, il biglietto. «Bene, ora passava il controllore, pagavo il dovuto e, se mi andava bene, riuscivo a fare un altro giro di giostra».

Quell’ arrivo non fu improvviso, gli era stato anticipato e lui ne aveva scritto in Un indovino mi disse. Uno degli indovini, capaci di leggere il riassunto di una vita su una foglia ingiallita, Raimanickam di Singapore, gli aveva predetto che fra i cinquantanove e i sessantadue anni, avrebbe dovuto superare una «strettoia», forse un’operazione; che insomma qualcuno gli avrebbe chiesto il biglietto.

Quando arriva a New York per farsi curare, pieno di nostalgia per la quiete himalayana, Terzani va da un barbiere e gli chiede di raparlo a zero. Il barbiere si rifiuta. «Ci ripensi, non vorrei che domani tornasse e mi incendiasse il negozio». Tiziano lo convince, ma non a tagliargli i baffi. Troppo belli. Se li taglierà da solo. Aveva deciso di farseli crescere quando aveva perso una scommessa su Nixon: lui pensava che non sarebbe mai stato eletto. A New York lascia le sue bellissime vesti orientali ed entra in un negozio di abbigliamento Duffy’s cheap clothes for millionaires, dove compra due tute da ginnastica e due berretti di lana.

Quando esce incontra un vecchio amico e collega, che non lo riconosce. È l’unica volta in cui, credo, si sarà sentito a suo agio, nei nuovi vestiti. Il viaggio nella malattia è uno splendido viaggio nella vita, «nel bene e nel male del nostro tempo». Uno strano paziente, Terzani. «You wait, you die», gli dice una premurosa dottoressa «Tu aspetti, tu muori».

Lui si chiede perché nella cura del cancro si usi un’inutile terminologia bellica. Il nemico da combattere? Non è meglio considerarlo parte di noi? Un monaco buddista vietnamita gli aveva consigliato anni prima: «Ogni mattina, appena sveglio, dica qualcosa di gentile al suo cuore e al suo stomaco. Dopotutto molto dipende da loro». Il viaggio è lungo. Nelle cure, nelle medicine e nelle culture del mondo. Dalla chemioterapia all’omeopatia, all’ ayurveda, al qi gong, discipline tibetane, cinesi. «Lei che cosa fa nella vita, dottor Terzani?». «Il malato esperto».

Poi, il viaggio finisce con un’ operazione. Un chirurgo che apre e richiude. «Il miglior medico è dentro di noi». Sarà stato il migliore, ma non ce l’ ha fatta.

Il tè a Milano. Tiziano aprì la bustina di Twining’ s con un certo fastidio e forse disgusto. Il male era dentro di lui, ma lui l’ aveva accolto sorridendo. Sorrideva, scherzava. Come se anche in quel posto si fosse sentito in armonia con l’ universo. Come fosse stato seduto sui talloni ad occhi chiusi. In meditazione. Poteva essere lì come nel suo rifugio a tremila metri.

«L’ indirizzo email è sempre lo stesso?». «Sì». Nemo Nessuni. Bellissimo. Pensavo fosse il suo modo originale di nascondersi. La ragione vera l’avrei scoperta leggendo l’ ultimo libro. Quando Terzani si ritira, tra una cura e l’ altra, a studiare un po’ di sanscrito in un ashram decide di chiamarsi Anam, il senza nome. «Un nome appropriatissimo, mi parve per concludere una vita tutta spesa a cercare di farmene uno».

Al momento di lasciarci mi regalò un piccolo fossile. Lo strinse in un pugno e poi me lo passò. «Conservalo, tienilo vicino». Forse quel sasso è come la foglia ingiallita dell’indovino. Peccato non saperlo leggere.