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«Spero, un giorno, di essere il primo a sapere.»

(un’intervista di Ana Ciurans a Enrique Vila-Matas)

Nei miei romanzi non ha importanza se il personaggio si dedica a mettere timbri in uno sportello o se è un cospiratore internazionale. Ciò che importa è la sua ossessione. I miei personaggi sono eroi –scrittori o editori, oddio, editori solo nell’ultimo romanzo – che girano intorno a un’ossessione. Appena ho finito di scrivere il libro, dimentico subito l’ossessione che quel libro contiene. Perché così velocemente? Perché tale ossessione era solo un pretesto per scrivere sul mondo e sulla vita. A molte desidererei avere un’ossessione così fissa da permettermi di diventare un grandissimo narratore, ma non ce l’ho. E quindi devo crearmela. Forse quel che mi ossessiona è precisamente il mondo, la vita. Mi piace parlare di tutto. E mi piacerebbe che un giorno qualcuno mi spiegasse tutto, assolutamente tutto. Ricordi quel racconto di Kafka Descrizione di una battaglia?: Mi racconti tutto, dall’inizio alla fine. Non voglio più sentire frammenti. Mi racconti tutto, dall’inizio alla fine. Non sono disposto ad ascoltare meno. Sì, decisamente il mondo è la mia unica ossessione.

Gli elementi essenziali del romanzo del futuro sono, secondo l’editore Riba: intertestualità, relazioni con l’alta poesia; coscienza di un paesaggio morale in rovina; leggera superiorità dello stile sulla trama; scrittura vista come un orologio che avanza. Insomma, sembra il ritratto di Dublinesque. Convieni con l’opinione di Riba?

Si tratta di una teoria che ho scritto prima di Dublinesque. Dopo, senza rendermene conto, ho scritto Dublinesque seguendo queste premesse teoriche. Credo che ogni romanzo fondi la propria teoria per poi distruggerla. Il libro che sto scrivendo ora, per esempio, si basa su una teoria diversa.

Eccoci a Joyce e, sopratutto, a Beckett. Il capitolo sei di Ulysses è la cornice dove si celebra il requiem per il tramonto di un’epoca, inserito in Dublinesque, formante parte, in questo senso, della sua struttura. Con Beckett, al contrario, ho avuto una sensazione diversa. Che la sua presenza nel romanzo abbia ispirato una disgregazione dell’identità personale, un omaggio alla sua teoria secondo la quale non c’è nulla da comunicare, un processo di sottrazione, di asciugatura della tua scrittura.

Sono sempre stato più vicino a Beckett che a Joyce. Di fatto, il terzo e ultimo capitolo di Dublinesque, è per me il più interessante, forse perché mi sono sentito più libero di scrivere, forse perché avevo già costruito – nel bene e nel male – tutta la fiction e mancava solo la passeggiata finale, dove potevo permettermi le licenze che mi mantengono ancora vivo quando narro. È capitato che qualcuno, qualche volta, abbia scritto un intero romanzo solo per poter introdurre – far scivolare – una frase, di vitale importanza per lui. È il caso di Dublinesque? Se ora ti dicessi di sì, ti obbligherei a rileggere il romanzo in un’altra chiave. Ma non te lo dirò, preferisco semplicemente che tu pensi che il romanzo ha, infatti, altre chiavi di lettura, che tu cerchi quella chiave segreta.

Chi o che cosa significa per Enrique Vila-Matas quella “gran puttana” della letteratura?

Povero figlio di puttana, disse amorevolmente un’amica di Scott Fitzgerald durante il funerale di Scott Fitzgerald. Povero figlio della letteratura, avrebbe potuto dire anche questo, no? Ma l’ho detto per rispondere alla tua domanda quando in realtà una risposta non ce l’ho. Ci sono cose che metto nei romanzi senza sapere il loro significato, sperando arriverà un giorno in cui lo capirò. Come la chiave segreta. Spero, un giorno, di essere il primo a sapere.

(la trovate intera qui)