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Su Regeni e sulle ragioni della giustizia

(da minima&moralia)

I diciannove mesi che ci separano dalla sparizione forzata di Giulio Regeni e dal ritrovamento del suo corpo, reso quasi irriconoscibile dalla tortura, hanno visto una mobilitazione inedita da parte della società civile italiana.

L’Italia intera, dal basso, si è stretta solidale attorno alla famiglia Regeni che, a sua volta, ha assunto con coraggio e generosità l’onere di dare voce al dolore, alla rabbia ed allo sdegno degli amici e dei colleghi del loro figlio, inclusi coloro cui una morte prematura, violenta e insensata non ha concesso di incontrarlo in vita, ma che con lui hanno condiviso, a distanza, un’esperienza intellettuale e una visione umanistica del mondo.

Di fronte a questa mobilitazione capillare, immediata e spontanea, che ha coinvolto i grandi comuni e i piccoli centri, il mondo dell’arte, dello sport, della cultura, le università, le società professionali, le scuole, e le tante famiglie che hanno i figli che studiano o lavorano all’estero, il governo italiano e quello egiziano sono stati costretti a permettere alla procura di Roma di indagare sul caso, smantellando uno a uno i tanti depistaggi e i tentativi di diffamazione del ricercatore italiano. Anche una certa stampa, per troppo tempo allineata su tesi complottistiche, alla ricerca dello scoop, dovrebbe arrendersi all’evidenza schiacciante dei fatti.

Come scrisse Andrea Teti – uno degli autori di questo testo e della lettera al Guardian del 6 febbraio 2016, firmata da migliaia di professori in tutto il mondo: “È questa sua normalità l’aspetto più difficile da comprendere del caso di Giulio Regeni: normale la ricerca, normali i metodi, normali le analisi.” Quello che non è normale è il suo assassinio. La società civile lo ha capito fin dal primo giorno.

Non sorprende, dunque, che questa società civile abbia accolto con molto sgomento l’annuncio del governo italiano, alla vigilia di Ferragosto, del ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo, che di fatto ufficializzerebbe la normalizzazione dei rapporti tra i due paesi.

In quanto esperti di politica internazionale e ricercatori con forte esperienza sul campo in Egitto, esprimiamo i nostri profondi dubbi intellettuali, morali e politici sulle spiegazioni offerte dal governo italiano per il ritorno dell’ambasciatore al Cairo. Non crediamo che il ritorno dell’ambasciatore italiano – sia pure una figura autorevole come Cantini – possa contribuire a un cambiamento di atteggiamento da parte del governo egiziano per far luce sulla straziante vicenda di Giulio Regeni. La scelta di far rientrare il nostro rappresentante diplomatico, senza aver ottenuto una reale collaborazione nella ricerca della verità, non solo significa quasi sicuramente abbandonare le ultime speranze di fare giustizia per Giulio, ma tradisce anche una profonda incomprensione dell’efferato operato del regime egiziano. Inoltre essa mina il tentativo – supposto – di raggiungere obiettivi di stabilità e sicurezza per il nostro Paese.

La decisione del governo è altamente discutibile sia nei modi che nei contenuti. Nei contenuti, perché la ragione data dal Ministro Alfano per il ritorno dell’ambasciatore – l’opportunità di seguire e agire più da vicino la vicenda – è quanto meno poco credibile: la presenza al Cairo del precedente ambasciatore Massari, nonostante la sua esperienza sul campo, la sua credibilità e la sua dedizione, non è certo servita a ritrovare salvo Giulio né a fare chiarezza. Ma la decisione è anche molto discutibile nei modi, sia in quanto rilasciata a ferragosto, sperando evidentemente nella distrazione del pubblico, sia in quanto coincide con il quarto anniversario del massacro di Raba’a al-Adaweyya, in cui centinaia di oppositori alla destituzione del Presidente Morsi vennero massacrati in pieno centro al Cairo. In quel massacro – la strage più violenta nella storia moderna egiziana – vennero uccisi non solo Fratelli Musulmani, ma anche membri della società civile democratica e secolare.

Inoltre, la normalizzazione dei rapporti diplomatici in questo modo ed a queste condizioni è quasi impossibile che ottenga i risultati positivi che i suoi sostenitori pretendono di volere. Al contrario, a nostro avviso, si rischia di indebolire notevolmente la posizione dell’Italia sotto vari punti di vista:

Primo, la reputazione dell’Italia: Il rientro dell’ambasciatore manda un chiarissimo messaggio al popolo ed alla società civile egiziani, e cioè che l’Italia non è disposta a perseguire una seria politica di difesa dei suoi cittadini e dei loro diritti umani, né tantomeno di quelli degli egiziani. Questo inevitabilmente danneggia la reputazione sia dell’Italia che dell’Unione Europea, che si fregiano di essere difensori di diritti umani e valori democratici. Dall’Egitto la società civile segue con attenzione questa vicenda, ben consapevole che essa mette alla prova i princìpi, la coerenza e la credibilità della politica estera italiana.

Secondo, la sicurezza di cittadini e ricercatori italiani in Egitto, nonché della società civile egiziana: Se, come sembra, la scelta del governo segnala una resa nei confronti della vicenda di Giulio Regeni, essa mette direttamente in pericolo sia i ricercatori italiani, sia la comunità italiana in Egitto, che la società civile egiziana. Gli attivisti egiziani, ricordiamo, si sono prodigati e continuano ad esporsi in prima persona per cercare giustizia per Giulio. Quando Giulio venne ritrovato, in Egitto vigeva già una legge che vieta le manifestazioni – eppure, decine di giovani si raccolsero di fronte all’ambasciata italiana per una veglia in memoria di Giulio. Facendo questo, hanno rischiato l’arresto e gli abusi della polizia. Hanno scritto: “È morto come un egiziano”. La madre di Khaled Said, martoriato anche lui dalle forze dell’ordine anni prima, per aver cercato di denunciare poliziotti corrotti ed icona della rivoluzione del 2011, parlò di Giulio come fosse figlio anche suo. Il 25 gennaio di quest’anno – anniversario della scomparsa di Giulio, ma anche della rivoluzione egiziana del 2011 – la memoria di Giulio circolava nei network egiziani, attraverso i social media. Il portale di informazione indipendente, Mada Masr, ha dedicato diversi articoli coraggiosi a Giulio, esponendosi di nuovo a notevoli rischi. Ad una conferenza alla Camera dei Deputati il 3 Febbraio di quest’anno, anniversario del ritrovamento del corpo martoriato di Giulio, la giornalista egiziana Lina Attalah, caporedattrice e fondatrice di Mada Masr e alumna del Collegio del Mondo Unito di Duino, proprio come Giulio, ha affermato: “L’atrocità di questa morte è un grido per tutti noi. Ci urla in faccia, così come ci interpellava il senso di affinità che tutta la sua vita e la sua opera di ricercatore dimostravano a persone come me che si adoperano per i diritti dei detenuti in Egitto. In qualità di giornalisti avevamo il dovere di far luce su quanto era accaduto a Giulio, ma anche far luce su un contesto più ampio e sulle condizioni che hanno portato a questo esito.” Troviamo inaccettabile che tutte queste persone, che con noi e con Giulio condividono una visione del mondo, siano messe in pericolo dall’indifferenza del governo italiano e dell’Unione Europea.

Terzo, la Ragion di Stato: I sostenitori della decisione del governo asseriscono che, per quanto moralmente spiacevole, la vicenda di una singola persona non può avere priorità sugli interessi nazionali. Ma è importante sottolineare che l’interesse nazionale non viene servito da questa decisione, ne viene anzi danneggiato. Questa scelta a nostro avviso non raggiunge e non può raggiungere gli obiettivi di sicurezza posti dal governo e dall’Unione Europea. Come hanno dimostrato le rivoluzioni arabe del 2010-11, la sicurezza senza giustizia sociale e politica è inevitabilmente precaria ed instabile, e destinata a creare pericoli ancora maggiori. Anche la convinzione che il ritorno dell’ambasciatore possa consolidare la posizione geopolitica italiana – in Libia come nei rapporti commerciali con l’Egitto – pare dettata più da ottimistiche speranze che dalla realtà dei fatti. Al contrario, questa normalizzazione diplomatica assume le dimensioni di una controproducente ostinazione a compiacere il regime egiziano sulla base di erronee valutazioni del nostro interesse nazionale.

Quarto, il governo italiano vuole davvero ottenere la verità su Giulio Regeni?: Il dubbio che il governo abbia avuto da sempre poco interesse a premere sull’Egitto per fare luce sulla vicenda c’era sin dall’inizio: tranne il doveroso ritiro della delegazione commerciale che si trovava al Cairo quando venne ritrovato il corpo martoriato di Giulio, il governo si è mosso solo dopo il successo della campagna di mobilitazione della famiglia e della società civile. Lo Stato italiano ha sostanzialmente fatto due soli passi a sostegno della causa di Giulio: primo, sospendere temporaneamente le forniture di parti per gli F-16 egiziani, cosa fatta dal parlamento; e, secondo, ritirare l’ambasciatore, che fino all’annuncio di ieri rimaneva l’unica pressione esercitata dall’esecutivo. Il nostro Paese è il primo partner commerciale europeo dell’Egitto, eppure sanzioni economiche non sono state prese in considerazione. L’ENI è il maggiore produttore di idrocarburi in Libia, ed ha in concessione il grosso giacimento egiziano Zohr, eppure nemmeno questa leva è stata usata. Infine, nessun serio tentativo è stato fatto per portare la questione a livello europeo. I sostenitori della decisione del governo dicono che non avere un ambasciatore era diventata ormai una “pistola scarica” – ma è difficile non trarre la conclusione che il governo quella pistola non l’abbia mai caricata.

Il governo ci ha messi di fronte al fatto compiuto del ritorno dell’ambasciatore al Cairo, asserendo che questa azione fa parte di una strategia sincera per arrivare alla verità. Noi ci auguriamo che sia così, ma come tutte le forze che hanno sostenuto la ricerca di verità e giustizia per Giulio e la sua famiglia, ci riserviamo di osservare da vicino il comportamento del governo nei prossimi mesi. Ci aspettiamo, ad esempio che la presenza dell’ambasciatore ottenga una reale collaborazione dalle istituzioni egiziane. Ci aspettiamo concreti passi in avanti nelle indagini, quali l’invio delle registrazioni video delle stazioni della metropolitana della sera del 25 gennaio, i nomi degli agenti di sicurezza coinvolti nella sorveglianza di Giulio, e l’accesso diretto e rapido a tutti i testimoni che la procura di Roma riterrà opportuno ascoltare.

Stabilità e sicurezza non possono prescindere da verità e giustizia: fare luce sulla vicenda di Giulio non è solo un atto dovuto alla sua famiglia, ma anche una presa di responsabilità internazionale, che contribuirebbe a ripristinare la giustizia e lo stato di diritto in Egitto, aiutando quindi a stabilizzare il Mediterraneo. Del resto, l’ambasciatore Cantini, pur essendo stato nominato dal governo, ha il compito di rappresentare gli interessi del popolo sovrano.

Ci rammarica che tutte le indicazioni fino a questo punto siano andate in senso contrario, suscitando in noi pesanti dubbi. Sarebbe confortante essere smentiti.

In chiusura ricordiamo le parole del nostro collega. Nel 2006, quando aveva appena 19 anni, Giulio rilasciò un’intervista in cui, alla domanda: “Che cos’è la libertà?” rispose: “La possibilità di esprimere te stesso a livello intellettuale all’interno di un sistema sociale capace di supportarti nelle tue scelte”. Proprio questo obiettivo – che era poi l’obiettivo delle rivolte arabe – dovrebbe essere la priorità per il nostro Paese: libertà e giustizia sociale. Questi non soltanto ideali, ma sono anche obiettivi politici nel nostro interesse nazionale. Per questo ci aspettiamo che la richiesta di giustizia e verità per Giulio Regeni e la solidarietà alla sua famiglia si traducano in azioni concrete da parte del governo. A volte può essere vero che la ragion di stato e gli interessi nazionali siano contrari alle vicende dei singoli e della giustizia.

Questo però non è uno di quei casi.

Il 18 agosto 2017,
Roma, Berlino, Sydney, Aberdeen

Lucia Sorbera
Andrea Teti
Gennaro Gervasio
Enrico De Angelis