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I migranti e le malattie. Per essere seri.

Un articolo di Cristina Da Rold di qualche mese fa che mette in chiaro dati, fatti e numeri. E che ci torna utile in questa giornata di prime pagine che sono una vergogna per il giornalismo ma soprattutto per la verità:

Sono oltre 500 mila le persone sbarcate sulle coste italiane negli ultimi anni: 170 mila nel 2014, 154 mila nel 2015 e 170 mila circa nel 2016. Una cifra che corrisponde, grosso modo, agli abitanti di una città come Genova, anche se per una grossa fetta di coloro che arrivano nel nostro Paese l’Italia è solo un paese di passaggio.

C’è chi ha parlato addirittura di “sesto continente” riferendosi ai movimenti migratori, volontari e non, che interessano l’intero pianeta; anche se nel caso italiano più che a un sesto continente siamo di fronte alla Terra dei fraintendimenti. Il più grave, quello per cui la vulnerabilità sanitaria dei migranti viene interpretata come un problema che può mettere a repentaglio la salute degli autoctoni.

“Il vero problema che dobbiamo affrontare oggi riguardo alla salute di chi sbarca sulle nostre coste non è rappresentato dalle gravi malattie infettive e diffusive, la cui incidenza è assai contenuta per il fenomeno del “migrante sano” ormai ampiamente dimostrato dai dati, ma dal disagio psicologico di queste persone” spiega all’Espresso Giovanni Baglio, epidemiologo della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (SIMM).

“Dal punto di vista della salute mentale, l’effetto migrante sano tende a esaurirsi rapidamente, già prima dell’arrivo, a seguito delle condizioni spesso estreme in cui il percorso migratorio si compie: coloro che arrivano, donne, uomini e bambini, sono estremamente vulnerabili e manifestano forme reattive quali depressione, disturbi di adattamento, disordini post-traumatici da stress, stati d’ansia”.

Non si tratta di nascondersi dietro a un dito, di spostare l’attenzione da un problema a uno pseudoproblema, come sottolinea nientemeno che il prestigioso Karolinska Insitutet svedese sulle pagine dell’altrettanto prestigiosa rivista Nature , dove gli esperti hanno affermato senza mezzi termini che “I paesi ospitanti devono affrontare i livelli elevati di disordini della salute mentale nei migranti, nell’ottica di far sì che essi si integrino il meglio possibile”.

Mentre nel nostro paese si fa politica intorno alle millantate conseguenze epidemiologiche dell’accoglienza, il focus sulla salute mentale è entrato oramai a pieno titolo nelle agende internazionali. L’Organizzazione Mondiale della Sanità per esempio ha dedicato la giornata mondiale della salute 2017 proprio alla salute mentale, anche in relazione al fenomeno delle migrazioni. Tuttavia, una primo passo l’abbiamo fatto anche in Italia: il 3 aprile scorso sono state pubblicate in Gazzetta Ufficiale  le Linee guida per la programmazione degli interventi di assistenza e riabilitazione nonché per il trattamento dei disturbi psichici dei titolari dello status di rifugiato e dello status di protezione sussidiaria che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale.

IL FRAINTENDIMENTO METODOLOGICO

I principali spauracchi sono le malattie che in una storia più o meno recente sono state sinonimo di epidemia: tubercolosi, polio, ebola. “Chi alimenta la paura della diffusione di malattie come la tubercolosi o ebola, divulgando l’idea del migrante-untore, vettore anche asintomatico di temibili pestilenze, ignora le evidenze epidemiologiche basilari: il viaggio risulta essere troppo lungo per ebola, ma troppo breve per la tubercolosi, nonostante le condizioni di grave deprivazione che accompagnano i migranti in fuga” spiega Baglio. I tempi con cui si sviluppa la tubercolosi sono infatti lunghissimi, possono durare anche anni, molto di più dunque di una traversata, e quindi anche se un migrante parte perfettamente sano ma con un’infezione latente abbiamo tutti gli strumenti per agire bene per tempo se si dovesse manifestare l’infezione una volta stabilitosi in Italia. Specularmente, i tempi in cui ebola si manifesta sono molto più brevi di quelli di una traversata in mare. “Se davvero dovesse esserci un caso di ebola a bordo – cosa assai improbabile –difficilmente il malato, o chi eventualmente venisse contagiato, arriverebbe vivo in Italia, rappresentando un problema per noi”.

Se c’è un problema riguardo alla tubercolosi, riguarda gli immigrati residenti, che di fatto si ammalano di più rispetto agli autoctoni, e al momento nessuna regione italiana propone uno screening sistematico per la tubercolosi fra gli stranieri residenti, anche se complessivamente il paese sta assistendo a una diminuzione dei casi anno dopo anno. Secondo quanto riportato dall’ultimo rapporto Osservasalute , i casi di tubercolosi notificati in Italia mostrano una lenta e progressiva diminuzione dell’incidenza, in accordo con quanto già accaduto nel corso degli anni (da 7,7 casi per 100.000 abitanti nel 2006 a 6,3 casi per 100.000 nel 2015). Insomma: la presenza dei migranti, anche quando diventano cittadini italiani, non ha impattato minimamente sul trend del numero dei casi di tubercolosi in Italia.

Lo stesso si verifica per l’HIV. I dati in merito sono lapalissiani: le ondate migratorie non hanno influenzato il trend complessivo dei nuovi contagi da HIV in Italia, anzi i dati del Centro Operativo AIDS (COA) dell’Istituto Superiore di Sanità mostrano che stiamo assistendo a una costante diminuzione dei casi. “Sebbene non siano untori, non significa che il problema non sussista – precisa Baglio – dal momento che comunque gli stranieri, anche se residenti, hanno maggiori difficoltà di accesso ai servizi, nonostante le cure siano assicurate presso le strutture del Servizio sanitario nazionale anche a chi non ha il permesso di soggiorno. Occorrono dunque maggiori sforzi a sostegno di una più efficace azione preventiva, di un accesso tempestivo al test diagnostico e di una maggiore fruibilità dei percorsi di cura, con particolare riferimento al grado di adesione dei pazienti ai protocolli terapeutici”.

ALLERTA NON SIGNIFICA EPIDEMIA

Circa 180 mila dei 500 mila sbarcati, stando alle statistiche più recenti, sono accolti nei centri di accoglienza, che sono i luoghi dove chi arriva sano ma vulnerabile può ammalarsi, se non vengono assicurate le misure minime di igiene e di controllo. Ancora una volta i dati sono chiari: la maggior parte delle malattie che si riscontrano nei centri di accoglienza sono problemi dermatologici non gravi in termini infettivi: scabbia e ustioni, queste ultime dovute alla commistione fra carburanti e acqua di mare, a cui i migranti, in particolare le donne che viaggiano di norma al centro dei gommoni, sono sottoposti.

Non si tratta di opinioni, sono i dati a metterlo nero su bianco, come emerge ancora una volta dall’ultimo rapporto di Osservasalute, che riporta i risultati dell’ultima Sorveglianza sindromica nei Centri per migranti della regione Sicilia nel periodo marzo- agosto 2015. Delle 13 malattie incluse nella sorveglianza, che ha coinvolto 21 centri di accoglienza in 5 province siciliane, per un totale di oltre 5000 migranti osservati ogni giorno, si sono riscontrate oltre 2000 sindromi, ma altro non erano che scabbia e ustioni. Nessun caso di diarrea con sanguinamento, sindromi gastroenteriche, meningiti, encefaliti, sindromi neurologiche, sepsi o shock inspiegabili, emorragie o ittero. E soprattutto solo un caso di tubercolosi polmonare latente.

Qui entra in gioco un secondo fraintendimento, questa volta di carattere linguistico, che deriva dall’utilizzare a sproposito i termini allerta e allarme. Questa sorveglianza sindromica riporta infatti 48 allerte e 16 allarmi nel periodo esaminato, in questa coorte di 5000 persone. “Si tratta di parole che fanno risuonare l’idea di gravi pericoli incombenti, mentre si tratta solo di termini tecnici utilizzati da noi epidemiologi – spiega Baglio – per descrivere situazioni che vale la pena controllare. Un’allerta statistica si verifica quando, nell’analisi giornaliera dei dati, la frequenza di una certo problema di salute (sia esso un episodio di bronchite o un caso di varicella) supera il livello atteso, mentre si parla di allarme quando l’allerta ricorre per almeno due giorni consecutivi. L’obiettivo è riuscire a intercettare il maggior numero di situazioni dubbie su cui poi si procede con la conferma diagnostica e l’eventuale trattamento”.

Importanti sono anche i risultati, riportati sempre da Osservasalute, che emergono dagli interventi effettuati a Roma fra il 2014 e il 2015 sui migranti in transito, per un totale di 3.870 visite effettuate dalle équipe sanitarie operanti sulle unità mobili nel 2014 e 8.439 nel 2015. Per quanto riguarda le malattie infettive sistemiche, nel 2014 sono state effettuate 21 segnalazioni (pari allo 0,5% della casistica totale), così distribuite: 7 persone con sospetta tubercolosi polmonare, per nessuna delle quali è stata poi confermata la diagnosi; 8 casi di malaria e 6 casi di varicella. Nel 2015, le segnalazioni di sospetta malattia infettiva sono state in tutto 108, e hanno riguardato prevalentemente casi di varicella (70) e malaria (27). I casi sospetti di tubercolosi sono stati 7 e solo per 2 di questi è stata confermata la diagnosi.

Certo, i problemi di igiene in molti casi rimangono, e in generale, nonostante non dobbiamo prestare attenzione ad alcun monatto manzoniano, non possiamo abbassare la guardia sul fronte dei controlli. A tale riguardo, sta per essere pubblicata dall’Istituto Nazionale Salute, Migrazioni e Povertà, in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità e con la SIMM, la linea guida “Controlli sanitari all’arrivo e percorsi di tutela per i migranti ospiti presso i centri di accoglienza”. Si tratta di un documento, elaborato da un panel multidisciplinare di esperti, che intende offrire raccomandazioni basate sulle migliori evidenze scientifiche disponibili sulla pratica dei controlli, per la quale esiste a tutt’oggi elevata incertezza e discrezionalità. Prima della stesura definitiva, sarà avviata una fase di revisione aperta, mediante consultazione pubblica, al fine di consentire un confronto trasparente, partecipato e costruttivo tra gli stakeholder e gli operatori sanitari, volto a sollecitare osservazioni e suggerimenti.

SALUTE PUBBLICA PER CHI?

È oltremodo curioso inoltre assistere alle rimostranze in termini di fantomatiche malattie infettive – che poi altro non sono che scabbia, varicella, eventualmente morbillo – e dall’altra al pericoloso aumento di chi decide per scelta per esempio di non vaccinare i propri figli. Anche qui il concetto di salute pubblica è perlomeno frainteso: ci si sente in pieno diritto di gridare agli untori, se ci sentiamo potenzialmente minacciati, ma non ci autodefiniamo tali se le nostre scelte possono mettere a rischio indirettamente e potenzialmente qualcun altro. “Rispetto alle malattie prevenibili con vaccino – precisa Baglio – il problema viene affrontato dalle Linee guida in precedenza ricordate, che raccomanderanno di vaccinare i bambini migranti ospiti presso i centri di accoglienza per le principali malattie, secondo il calendario nazionale vigente, in relazione all’età”.

“Il vero grosso fraintendimento è dunque quello di considerare come problema di salute pubblica primariamente ciò che avvertiamo come emergenza, in termini di ciò che può avere conseguenze dirette su di noi, mentre qui si tratta di allargare lo sguardo e considerare nel complesso il benessere di chi arriva. Ci riferiamo solitamente alla salute pubblica mettendo al centro noi, gli autoctoni, e le conseguenze delle azioni degli ‘altri’ – i migranti, gli stranieri – su di noi, ma è una prospettiva parziale” conclude Baglio. “Si tratta di pensare invece alla salute pubblica davvero in termini universali, e non solo per noi, gli autoctoni. I dati mostrano in maniera evidente che qui a essere vulnerabili sono loro, non noi.”

(fonte)