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Il “caso Regeni” e l’Italia che chiagne (e se ne fotte)

Un pezzo da leggere, da Linkiesta:

 

Quella di Giulio Regeni è una vicenda a doppia velocità.

Da una parte ci sono la società civile, il grosso dell’opinione pubblica e il mondo della cultura uniti nel chiedere giustizia per una vicenda che grida vendetta; dall’altra il mondo della politica e, a cascata, quello dell’informazione televisiva mainstream da essa controllata, per cui Regeni – prima dell’inchiesta del New York Times di agosto – costituiva una seccatura di cui fortunatamente si cominciava a parlare meno.

La forza dei simboli è quella di colpire le persone in profondità, oltre la ragione, mettendole in comunicazione diretta con il proprio inconscio. Giulio Regeni ha da subito rappresentato il simbolo della contraddizione profonda su cui si basa l’Italia 2017, quella che tutti, in vario modo, vivono sulla propria pelle.

Per la generazione dei genitori, per i draghi e le virago del ’68 o del ‘77, Giulio è il figlio che avrebbero voluto avere.

Come i loro figli, Regeni si scontra contro un Paese incapace di riconoscere e premiare il merito, dove il talento – si tratti di una redazione di un quotidiano, un dipartimento universitario o il forno di una panetteria – è un fastidio, una minaccia per le gerarchie esistenti e le rendite di posizione, da combattere fino a rendere inoffensivo. Ma a differenza dei loro figli, Giulio sulla sua vita non accetta compromessi e invece di accontentarsi, magari grazie ad una raccomandazione, prosegue dritto per la sua strada: se ne va all’estero, impara cinque lingue, si guadagna la fiducia di Istituzioni internazionali che davanti ad Alfano scoppierebbero a ridere.

Per costruirsi il futuro che le generazioni precedenti hanno svenduto, Giulio è disposto a tutto, anche a fidarsi delle persone sbagliate, precipitando in una situazione più grossa di lui che gli sarà fatale.

Così, a pensare a Regeni, i genitori si macerano nei sensi di colpa; quella generazione che non solo ha perso, ma che addirittura si è portata via il pallone per impedire a quella successiva di giocare, leggendo del corpo straziato di Giulio si sente colpevole e cerca redenzione indossando come un cilicio il braccialetto giallo che lo ricorda. Nello stesso tempo, Giulio Regeni è un simbolo anche per la generazione dei figli, di cui rappresenta la perfetta sublimazione delle loro aspirazioni.

 

Regeni è quello che studia e lavora ogni giorno su stesso, non accettando niente che sia al di sotto dell’eccellenza; quello che per inseguire la propria vocazione è pronto a lottare fino in fondo, senza lasciare nulla di intentato. Quello, insomma, che come tutti vuole ribellarsi, ma che a differenza di quasi tutti ha il coraggio di farlo sul serio.
Regeni è quello che studia e lavora ogni giorno su stesso, non accettando niente che sia al di sotto dell’eccellenza; quello che per inseguire la propria vocazione è pronto a lottare fino in fondo, senza lasciare nulla di intentato. Quello, insomma, che come tutti vuole ribellarsi, ma che a differenza di quasi tutti ha il coraggio di farlo sul serio.

Per questo Giulio Regeni, per la generazione dei figli, diventa “un eroe”: non per le torture che ha subito da prigioniero ma perché quelle torture sono state il risultato di una ribellione a cui tutti, almeno una volta, hanno ambito. Divenuta simbolica e quindi “di principio”, il caso Regeni ha messo in ridicolo l’intera classe politica attuale come poche altre vicende erano riuscite a fare.

Modificata geneticamente dalla logica dei “followers”, la politica negli ultimi anni ha cercato di diventare puro sentimento, col risultato di scadere spesso in un mercante in fiera di populismi. I leader-venditori si sono illusi di poter governare compiacendo le pulsioni più elementari dei clienti-elettori, tipo piazzisti di aspirapolveri al mercato del sabato (non a caso, il politico più di successo dal 1994 a oggi è proprio un ex venditore).

Ma attraverso una vicenda come quella di Regeni, la realtà traccia una riga netta, obbligando il politico a una scelta di campo: da una parte il sentimento caro al piazzista, dall’altra la realpolitik del democristiano.

 

(continua qui)