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Tra Bonifacio VIII e Totò Riina: Inchiostro recensisce lo spettacolo “Mafie maschere e cornuti”

 

Il giornale degli studenti di Pavia (che ringrazio) recensisce il mio spettacolo “Mafie maschere e cornuti“. Con un articolo che è uno spettacolo, appunto. Ecco qui (fonte):

 

Quando si parla di mafie, generalmente, gli atteggiamenti sono due.

Il primo cede alla commozione, memore delle vite spezzate dalla piovra del crimine organizzato, e si scaglia in rituali requisitorie contro l’ingiustizia con toni che, per quanto umanamente condivisibili e sacrosanti nella sostanza, rischiano di risultare melensi.

È, in parte, la via dello spettacolo Dieci storie proprio così, di cui già si era parlato ai tempi (http://inchiostro.unipv.it/2017/01/25/laltra-faccia-di-gomorra-dieci-storie-proprio-cosi/).

Il secondo, vantante uno spessore ben inferiore ma forse una maggiore immediatezza, si risolve in un caleidoscopio di espressioni casuali, orribilmente storpiate da palati non natii, che invogliano l’ascoltatore a «stare senza penzier» oppure a ordinare un numero pari di «frittur».

Esso, semplicemente, sospende il giudizio. Il male viene minimizzato e forse sfatato dall’influsso di un prodotto televisivo di tutto rispetto, ma l’impegno viene meno.

Mafie, Maschere e Cornuti, cosiddetta «Giullarata antimafiosa» di Giulio Cavalli (attore, giornalista, politico, fine conoscitore di pizzerie e un sacco di altre apposizioni – il tutto sotto protezione, alla Saviano), cerca una terza via.

La via del ridicolo, della smitizzazione. La via che, tramite l’irriverenza e la risata, conferisce dei volti alle eminenze grigie che si aggirano furtive dietro il velo della malavita: volti farseschi, patetici, risibili. Maschere cornute, calzanti ciabatte di plastica fuori misura con cui evitano a malapena lo sterco di capra che ricopre i loro pavimenti; esaltate al crimine organizzato da colonne sonore ispirate alle loro stesse malefatte.

È il territorio della presa in giro più feroce, rovesciamento carnevalesco di uno statusche il potente malvagio detiene nell’ombra, invisibile ma pesante come una coltre di ferro. Con un giullare Cavalli che, per quanto diverso dal modello affermato dall’imprescindibile tradizione di Dario Fo,[1] compie un lavoro egregio: mise casual, capello importante, voce secca risuonante nella nostra familiare Aula del ‘400,[2] voglia di giocare cogli spettatori e abolizione di qualunque barriera tra diegetico ed extra-diegetico, tra spettacolo effettivo e benigne frecciate al pubblico e all’organizzazione.

Un’esperienza che, come affermato dal suo stesso artefice, non è strettamente teatrale, e che dunque si mostra priva di tutti gli orpelli tradizionalmente associati al teatro. Niente scenografia, niente trovate sceniche, nessuna roboante introduzione alla Fo. Solo un giullare in borghese con il suo bagaglio di esperienze, la sua indignazione e tanta voglia di far ridere; accompagnato dalla fisarmonica espressiva del suo accompagnatore lungo varie scene ritraenti i grandi volti della mafia. Esasperati tutti, dal primo all’ultimo, nella loro ridicola umanità.

Con una nota di malinconia qua e là, impercettibile quanto poetica, per ricordarci di coloro che non hanno potuto fisicamente ridere con noi.

Speriamo vi siate comunque fatti una risata, guardandoci dall’alto.

Cazzo, sapevo che sarei andato a parare nella commozione.

Che volete farci.

Du frittur.

Ringraziamo l’UDU pavese per averci offerto questa bella occasione; oltretutto a costo zero. Siamo poi loro grati per aver fornito a Cavalli un leggio – per quanto debitamente nascosto sul palco – e persino dell’acqua a metà spettacolo (permettendo quindi la fluida continuazione dello stesso).

Insostituibili.

 

[1] Inutile e infruttuoso qualunque tentativo di trovare un aggettivo. Il più dignitoso “foiano”, nella mia ricerca priva di spunti, è infine andato degenerando in “foyer”.

[2] Per quanto, a mio parere, l’acustica non fosse delle migliori; aspetto che personalmente mi ha impedito di sentire alcune battute.

Non che sentendole avrei avuto la garanzia di capirle, ma vabbè.