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Né fake news, né i social: il problema è la maleducazione alla complessità

Abbiamo spinto perché fosse tutto veloce, immediato, superficialmente pungente: sarà stato per un incasso pubblicitario che sul web è calcolato sul clic piuttosto che sul tempo di lettura o forse sarà stata per tutta questa smania di arrivare per primi piuttosto che meglio ma alla fine il giornalismo che si sostiene con le colonnine fitte di pruriti, scapezzolamenti, gattini e video più brevi dell’advertising che li introduce ha la sua fetta di responsabilità per questa disabitudine alla complessità che  è diventata rissa, bile seriale e inevitabilmente anche valanga di castronerie bevute per vere.

Forse converrebbe andare a ricercare con cura da archeologo innamorato dove sia il punto in cui si è deciso che tutto ciò che è troppo complesso sia inutilizzabile per la comunicazione “smart” a cui si sono affezionati in tanti poiché fascinosamente comoda e deresponsabilizzante. Sarebbe il caso di interrogarsi quando si è deciso, il giorno esatto (magari saperne anche l’ora, per appuntarcela nel diario delle nostre sviste peggiori) in cui abbiamo permesso di ridurre ogni dibattito alla combutta in cui possano partecipare al massimo due squadre, quella del fortissimamente sì e del fortissimamente no, buttando via tutto quello che ci potrebbe stare in mezzo poiché troppo lento da intuire, troppe battute per poterlo comunicare, troppo complesso (appunto) e quindi barboso, complicato, etichettato come 1.0.

Un Paese che si scanna su Riina tra la fazione di chi lo vorrebbe seviziare anche da morto e chi lo vorrebbe santo e intanto sono superflui tutti i commenti intermedi; un Paese che riduce il tema del maschilismo all’inneggiare qualcuna come Giovanna D’Arco o all’affondarla come puttana ed è barboso tutto il resto; un Paese che spreca paginate di politica sul gioco della torre dei futuribili premier, travestendo il quiz da editoriale di analisi politica; un Paese per cui Giulio Regeni o è vittima o è carnefice, e ci siamo persi il ragazzo, la sua storia, la sua famiglia, la politica estera e tutto il resto; un Paese in cui una notizia falsa che corrobora una nostra convinzione è una bugia bianca mentre invece una notizia vera che disturba le nostre idee è un “pensiero unico imposto” che smontiamo con un “ma anche” per chiudere la discussione.

E poi ci stupiamo se lì dove ci dovrebbe essere un senso di appartenenza figlio di una condivisone d’intenti e di ideologie (anche le ideologie, insieme alle idee, sono diventate roba troppo complessa per avere il permesso anche solo di pronunciarle) alla fine ci troviamo solo tifo. Abbiamo concesso una lenta e sistematica rottamazione della credibilità dei saperi e ora ci fingiamo stupiti di fronte all’ignoranza. Abbiamo dopato la vitalità trasformandola in culto e ora ci lamentiamo della propaganda. Ne scrivevo in un mio buongiorno di un anno fa: c’è da innamorarsi dei dubbi e da allenarsi all’essere terribilmente fallibili. Un popolo incapace di leggere le complessità sarà sempre arido, inumano, sloganizzato e continuerà a sentirsi comodo solo dentro il perimetro stretto di un commento sui social o un luogocomunismo da aperitivo.

C’è da studiare, rimboccarsi le maniche, ambire a saperne di più, a fare meglio. Anche se sembra così terribilmente fuori moda.

Buon martedì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2017/11/28/ne-fake-news-ne-i-social-il-problema-e-la-maleducazione-alla-complessita/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui.