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Devo darvi una notizia che una notizia non lo è: sono fatto così.

Faccio un mestiere particolare, io: troppi. Nasco stando sui palchi a limare le risate contro il prepotere dei prepotenti e per quello mi sono ritrovato in qualcosa di pauroso e pesantissimo per le persone che mi stanno intorno: a forza di affilare monologhi sono finito costretto a guardarmi le spalle. Era una cosa che faceva impazzire dal ridere Dario Fo, ogni volta che ci capitava di parlarne.

Poi non riesco a non mettermi a scrivere ogni volta che trovo una storia che non sia stata raccontata abbastanza: mi chiamano giornalista ma in realtà sono un cantastorie che in mancanza di palchi si butta sulla carta e la penna perché non sopporto che le storie rimangano sepolte dalle porte chiuse e dalle finestre abbassate. Mi chiamano giornalista ma forse sono semplicemente uno spazzacamino che stura le notizie che a qualcuno rimangono in gola.

Mi occupo di mafie. Sì. Senza aver mai pensato di esserne né l’antieroe né il nemico numero uno ma con la consapevolezza che le mafie, sì, mi hanno cambiato la vita. In peggio. La mia e quella dei miei figli. Perché in questo la mafia è come la politica: tu puoi non occuparti di loro ma loro si occupano di te. E in tutti questi anni passati ad attraversare l’Italia ho scoperto eroi quotidiani e silenziosi che mi hanno insegnato più dei saggi: tra le vittime di mafia, tra i loro famigliari e tra le centinaia di persone che dell’antimafia ne hanno fatto davvero una professione (nel senso rotondo e pulitissimo di “professare” i propri valori)  ho incontrato persone che mi hanno insegnato la virtù della schiena dritta, delle scelte difficili e ho respirato il “profumo della libertà” contro “il puzzo del compromesso”. Sarebbero quasi da ringraziare, quegli stronzi che pensavano di intimorirmi.

Poi ho i libri. I miei libri. Che alla fine sono un distillato di me. Un pinta di Giulio, per dire. E ho la fortuna di avere editori che hanno creduto in me e lettori che mi scrivono lettere che sono più belle dei miei capitoli.

Poi ho la politica. Sì. Che è una passionaccia che coltivo e che auguro ai miei figli di coltivare. In Regione insieme a Pippo Civati abbiamo raccontato le mafie e il formigonismo quando ne parlavano in pochissimi. L’ho fatto lì, in faccia a Formigoni e in faccia agli stessi politici che con la ‘ndrangheta stabilivano le cordate elettorali. Faccio politica ogni volta che scrivo, recito e presento un libro: ogni volta che qualcuno tenta di colpirmi dicendomi “sei troppo politicizzato” lo prendo come un complimento da mettere nel cassetto degli attacchi che mi fanno piacere. Mi auguro un Paese politicissimo, aborro l’apolitica (e l’antipolitica) che ha sempre aperto la strada alle truffe e agli imbonitori.

Eccolo il mio mestiere, pieno di rivoli. E ogni volta ne pago volentieri il prezzo. Per questo quando Liberi e Uguali mi ha chiesto di candidarmi alla Camera, nella mia Lombardia, ho pensato che ci vuole fegato a candidare un rompicoglioni come me, critico per indole e di natura avverso alle servitù di scuderia (nonostante il cognome), ma credo che la sinistra (sì, la sinistra, anche se qualcuno vorrebbe farla passare di moda) ogni tanto tocchi anche costruirla con qualcosa in più degli editoriali. E ho accettato. Sono candidato a Monza nel collegio plurinominale alla Camera. Sarà un mese bellissimo.