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Qualche buon motivo per non avere paura di #MeToo

Ne scrive Anna Momigliano per Rivista Studio:

«Le argomentazioni dei Grandi Preoccupati, si diceva, non mi convincono. Eppure. Eppure devo ammettere che ci sono molte persone che stimo, inclusa Teresa, che esprimono un disagio. Provo ad avanzare un’ipotesi: forse, se questa storia ci mette a disagio, è anche perché ci sono ancora troppi non detti, troppe questioni – morali e culturali – che non sono state sollevate, o affrontate con la serenità e l’onestà intellettuale che meriterebbero. Una di queste questioni è, suppongo, il rapporto tra il garantismo e il credere alle donne. Insomma, è da secoli che ci ripetiamo che quello che distingue la civiltà dalla barbarie è che in un mondo civile si è innocenti fino a prova contraria, e adesso arriva un movimento che dice che dobbiamo credere alle donne che dicono di essere molestate. Una tensione tra questi due valori, inutile negarlo, esiste. La domanda è, c’è modo di trovare una sintesi?

Non risposte. Credo però un punto di partenza sia riconoscere che le violenze di natura sessuale sono, quando avvengono ai danni di donne adulte, un caso unico: nessun altro reato ha mai portato, storicamente, a mettere le vittime sul banco degli imputati, e nessun altro reato genera, ancora oggi, reazioni di sospetto nei confronti di chi lo denuncia. Quando una donna accusa un uomo di averla violata nella sfera più intima, c’è qualcosa che scatta e che ci fa dubitare, automaticamente, di lei: se la sarà cercata? se lo sarà inventata? e se invece ci stava? Sono dinamiche, consce e inconsce, che si trascinano da secoli e che non si cancellano da un giorno all’altro. Ed è proprio questa tendenza a mettere in dubbio le parole delle donne ha permesso ai loro aguzzini di agire con un senso di impunità. A questo si aggiungono, poi, questioni più pratiche: spesso, come ha detto qualcuno, le vittime di violenze sessuali non hanno alcuna prova se non il loro dolore. Sarebbe bello, allora, che cominciassimo a credere alle donne, magari anche rendendoci conto che farlo richiederà uno sforzo, arginando certe tendenze ataviche.

Questo significa che dobbiamo fare un’eccezione al principio di presunzione di innocenza? Dio ce ne scampi, voglio sperare che riusciremo a trovare una quadra. Nel mio piccolo, mi sono autoimposta questa regola: mai accusare una donna di mentire, salvo prove evidenti a suo sfavore; mai esigere che un uomo paghi, salvo prove evidenti a suo sfavore. E qui veniamo al caso di cui parla tutta la città: per quel che vale, io credo a Dylan Farrow, perché non vedo che ragione avrebbe di dire il falso (è stata manipolata dalla madre, dicono il padre e uno dei fratelli, però il giudice che si occupò del caso nel ’93 stabilì che «non ci sono elementi credibili» per sostenerlo, rimproverando ad Allen di «nascondersi» dietro «lo stereotipo della donna abbandonata»; lo stesso giudice assolse il regista dalle accuse di molestie per mancanza di prove: «Non sapremo mai quello che è successo»); credo a Dylan, ma non per questo avverto l’esigenza di crocifiggere Allen: un’assoluzione per mancanza di prove è sempre un’assoluzione, meglio mille colpevoli liberi che un solo innocente in galera. Quanto ai suoi film, si potrebbe continuare a guardarli anche se fosse colpevole e dietro le sbarre, siamo tutti adulti quanto basta per sapere distinguere tra opera e artista (io A Rainy Day in New York pensavo di vederlo, ora scopro che forse non uscirà).

Concludendo, visto che la domanda alla base di questa serie è “che direzione può o deve prendere la battaglia sui diritti delle donne?”, queste sono le mie due modeste, ma serissime, proposte: primo, andiamo avanti, senza farci prendere da inutili paturnie sull’andare troppo oltre, tenendo sempre gli occhi sul Paese reale, anche perché nel Paese reale di strada ne abbiamo fatta davvero poca; e, secondo, proviamo a parlare delle questioni non risolte, armati di tutta la razionalità e di tutta l’onestà intellettuale di cui siamo capaci. Poi ce ne sarebbe una terza di proposta, che però è un po’ meno seria: qualcuno potrebbe chiedere al giudice che ha stabilito che sculacciare non è molestia se la regola vale solo quando si sculaccia una dipendente o vale anche quando si sculaccia un giudice?»

L’articolo completo è qui.