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La terza via dell’integrazione

(Riccardo Staglianò su Venerdì di Repubblica)

Brescia. Le tre sorelle arrivano a braccetto. Una piccola legione compatta e sorridente. L’appuntamento è davanti all’entrata dell’università, ora di punta. Sms: «Come vi riconosco?». Messaggino di risposta: «Portiamo il velo». In verità solo Asmaa e Hasna Bouchnafa, gemelle ventiquattrenni e studentesse di ingegneria, lo indossano. Dounia, appena maggiorenne, ha lunghi e vaporosi capelli castani. Ci sediamo in un’aula deserta. Chiacchieriamo un bel po’ prima di arrivare al punto: «È cambiato qualcosa al tempo dell’attentato al Bardo, le decapitazioni in streaming e i morti a Parigi?». Quel giorno un collega di Hasna, che per mantenersi agli studi fa turni di otto ore in una fabbrica di componentistica per auto, è andato da lei a brutto muso: «Voi avete ammazzato sei persone!». La ragazza non se l’aspettava. Ha balbettato qualcosa, si è addirittura scusata prima di riaversi e dire che no, le dispiaceva moltissimo per le vittime, ma lei non aveva ammazzato proprio nessuno. Intanto in classe di Dounia, che frequenta un istituto professionale per la finanza, una solerte prof aveva fatto irruzione in classe per chiedere a tutti di pronunciare l’ultima versione del giuramento di fedeltà all’occidente: «Ma io non l’ho fatto. Condanno gli assassini, ma non sono Charlie. Per il semplice fatto che quella rivista mi ha offesa, in quanto musulmana. E ho il diritto di poterlo dire». Né con l’Is, né con gli spernacchiatori del Profeta. Questa, provando a riassumere conversazioni con persone diversissime tra loro che solo l’elementare retorica leghista mette in caricatura come un pericoloso monolite, è la terza via bresciana. Doppiamente interessante perché è espressione di un posto dove gli immigrati sono molti, quasi tre volte la media nazionale (il 22 per cento dei residenti), e molto integrati, perché questi lombardi ruvidi ma pragmatici tendono a misurare gli uomini con il metro laicissimo della voeuja de laurà. Almeno fino a oggi.

A complicare il quadro, giorni dopo la mia visita la polizia ha arrestato ed espulso Ahmed Riaz, un trentenne pakistano con frequentazioni jihadiste su internet. E una settimana dopo la procura locale ha smantellato una cellula terrorista composta da due albanesi e un piemontese.

Fin qui tutto bene ripete, a ogni piano che supera, l’uomo che precipita dal grattacielo nel film di Kassovitz sull’odio nelle banlieues. Perché l’importante non è la caduta, ma l’atterraggio. È un’associazione di idee facile davanti a questo cilindro di sedici piani di cemento armato in cui otto campanelli su dieci sono di nomi arabi, africani, indiani. Il quartiere di San Polino è un satellite recente della città, dove gli italiani sono l’intruso del vecchio gioco enigmistico. Akram scende a prendermi in ciabatte. Ha finito di lavorare alle sei, l’ho chiamato alle sette e nonostante fosse ora di cena mi ha detto di andare a casa sua, che avrebbe preparato del tè. Nato in marocco ventidue anni fa, ha i capelli corti nerissimi come gli occhi e un bel viso. È arrivato qui dieci anni fa, ha fatto medie e superiori prima di approdare nell’azienda metalmeccanica per cui fa rettifiche e controlli qualità. Su sette dipendenti quattro immigrati, al punto che il titolare ha imparato un po’ di arabo con cui azzarda battute non sempre divertenti. Il fatidico 7 gennaio un collega sbotta: «Bombardiamoli tutti». Parla dell’Is, verosimilmente, ma Akram gli fa notare che non è gente che vive nel deserto e morirebbero tanti, troppi civili. Segue escalation verbale. A raccontarlo il ragazzo diventa ancora paonazzo: «Quelli che hanno ucciso non mi rappresentano, mi fanno schifo e se vengono sono pronto a combatterli. Io sono cresciuto qui, questa è la mia terra e in Marocco ci vado solo per vacanza. Ma sono, siamo stufi di giustificarci». All’indomani degli attentati parigini, ricorda, su Facebook era la sagra dell’islamofobia: «Il commento più gentile che ho trovato era “muori musulmano”». In quei giorni le varie comunità islamiche di Brescia hanno organizzato una manifestazione per una condanna pubblica. Akram voleva organizzarne un’altra per rivendicare la distinzione cui hanno già accennato le sorelle Bouchnafa: «Noi non siamo Charlie Hebdo». Articola: «Perché se offendono gli ebrei scatta l’accusa di antisemitismo e se lo fanno con noi va bene?». Il tema del doppio binario tornerà spesso. Un’altra parola che ritorna nell’arringa di Akram è «rispetto», termine-spia di una frustrazione al livello di guardia. Dunque: «Prima di giudicarci studiate il vero Islam, che non ha niente a che fare con il terrorismo».

(continua qui)