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Se al futuro non ci crede nessuno

Da leggere e ritagliare il pezzo di Riccardo Manzotti per Doppiozero:

L’immaginazione nazional-popolare del bel paese è malata di passato e carente di futuro. Ladri di futuro lo hanno sottratto. Volete un esempio? Nella tarda primavera, al salone del libro di Torino, – e già mi sembra di andare troppo indietro – Giorgio Agamben si esprime in questi termini: “Il futuro, che non esiste, può essere inventato di sana pianta da qualsiasi ciarlatano. Diffidate, tanto nella vita privata quanto nella sfera pubblica, di chi vi offre un futuro”. L’autore prende spunto da un aforisma ancor più drastico di Flaiano, “Ho una tale sfiducia nel futuro, che faccio progetti solo per il passato”. Sono sentenze che esprimono la convinzione, assai diffusa nello stivale, secondo cui l’unica chiave che permette di comprendere la realtà sia il passato, “mentre uno sguardo rivolto unicamente al futuro ci espropria, col nostro passato, anche del presente”.

Ma è un giudizio corretto? O piuttosto questa sfiducia verso il futuro è una malattia cronica che affligge il nostro sentimento nazional-popolare? Veramente il futuro è solo un inganno ordito per ingannare i molti? Un fuoco fatuo? Una sirena che porta i naviganti ad affondare scontrandosi contro le rocce della (dura e immutabile) realtà? O non è forse il contrario? Non sono piuttosto coloro che, disprezzando il futuro, impediscono alla fantasia di immaginare il futuro e quindi scoprire nuove vie?

Intendiamoci, non sto parlando del futuro reale dell’Italia che studenti, imprenditori, studiosi, creano ogni giorno! Voglio piuttosto riferirmi a una strana cecità, da parte dell’immaginario di formulare scenari futuri. Mi interrogo sui motivi che determinano, nella produzione letteraria e mediatica tricolore, una assenza così cospicua. Non mi interrogo sul valore estetico di un’opera in base alla sua collocazione temporale. Non equivocatemi. Il punto è un altro: come mai un’intera nazione non considera, se non in casi rarissimi, scenari futuri? Come mai l’immaginario italiano è prigioniero del passato remoto, prossimo, storico, individuale o esistenziale?

Intanto verifichiamo questa impressione. Cerchiamo qualche dato oggettivo pur senza la pretesa di un’analisi statistica. Prendiamo come punto di partenza un premio letterario famoso: il premio Strega. Su 44 opere premiate dalla sua fondazione, quante di esse erano ambientate in uno scenario futuro? La risposta è inequivocabile: nessuna. Ogni volume uscito dallo Strega è rivolto al passato. Analoghe statistiche “bulgare” emergono dall’analisi di altri premi letterari o, più semplicemente, dalle classifiche dei testi italiani di maggior successo. Quasi tutti gli autori si muovono in un passato prossimo esistenziale dove il confine del presente rimane invalicabile. Da Fabio Volo a Federico Moccia, da Giorgio Faletti a Giancarlo De Cataldo, lo sfondo temporale coincide con il passato più o meno prossimo, più o meno esistenziale, più o meno soggettivo.

Significativamente, Sebastiano Vassalli ha intitolato la sua opera di maggior successo Archeologia del presente, e di archeologia si tratta. Se, poi, allarghiamo lo sguardo e consideriamo gli ultimi cinquant’anni di letteratura italiana, il panorama non cambia. In fondo, questo amore per il passato, sentito come l’unico scenario accettabile per un’opera narrativa, non è una caratteristica recente; è qualcosa che ha radici antiche e diffuse. Umberto Eco ha fatto della ricostruzione erudita del passato un labirinto dal quale è impossibile uscire. Tomasi di Lampedusa ha elevato il passato della sua terra a dimensione esistenziale. Certo, ci sono state eccezioni, Italo Calvino per esempio. Ed esiste un filone molto interessante di scrittori di fantascienza italiana, Valerio Evangelisti o Tommaso Pincio. Ma questi casi, peraltro non popolarissimi, non sono altro che l’eccezione che conferma una zeitgeist passatista. Non ci hanno forse insegnato che la letteratura italiana nasce con il romanzo storico dei Promessi Sposi? Nasce guardando indietro. Il futuro non è nemmeno accennato. Lo strumento dell’immaginazione è uno specchio retrovisore.

Lo stesso vale per gli altri settori della produzione dell’immaginario. Consideriamo il cinema: i nostri registi hanno l’obiettivo rivolto a un passato che non esiste più o, al massimo, a un presente già concluso. I registi “classici” hanno spremuto miele e suggestioni dal passato più o meno remoto dello stivale: Risorgimento, guerre mondiali, ricostruzione, boom economico, anni di piombo. Fellini ci riporta alla riviera romagnola della sua infanzia, Bertolucci descrive la bassa padana dei primi del novecento, Magni racconta la Roma risorgimentale, Leone rispolvera il passato della Grande Mela, Gabriele Salvatores torna all’Italia della guerra. Il capolavoro di Ettore Scola, “C’eravamo tanto amati”, ha nell’imperfetto la cifra della condizione esistenziale. E così fino ai giorni nostri. Paolo Sorrentino affoga nel buco nero di una capitale soffocata dal passato, dove i rifiuti urbani e i detriti esistenziali si mescolano per diventare un’unica sostanza. I racconti che gli italiani inventano, su pellicola o carta, guardano indietro a un passato storico o esistenziale: l’infanzia, i genitori, i progenitori, l’Italia che fu.

Le produzioni televisive non sono diverse, popolate da oleografiche figure rassicuranti – vie del centro, vetrine, i Cesaroni, medici, preti e carabinieri. Ricostruiamo tutto, ma non passiamo il Rubicone del momento presente.

(continua qui)

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