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Una battaglia (politica) per la lettura. Anzi: un piano nazionale per la lettura.

Abbiamo una classe dirigente estranea ai valori della cultura, dunque perchè stupirci se viene fatto poco per promuovere la lettura?”: la domanda l’ha posta a gennaio di quest’anno Giovanni Solimine, presidente onorario del Forum del Libro e della Fondazione Bellonci che organizza il premio Strega. Solimine (che i libri li legge, oltre che parlarne) nella sua intervista propone anche alcune possibili soluzioni:

«“Lo sgravio fiscale per l’acquisto dei libri e un impegno sul territorio per librerie scuole, biblioteche. Soprattutto nelle periferie urbane o in alcuni paesi del SUd, dove i dati di lettura sono molto al di sotto del pur basso 40% della media nazionale”.»

Proprio su un piano nazionale della lettura (e il deprimente disinteresse della politica) Nicola Lagioia aveva scritto un prezioso articolo per Repubblica (che trovate riportato da Minimaetmoralia qui) in cui scriveva:

«Com’è ovvio la questione del reddito è centrale: chi ha più soldi in tasca compra più libri – se confrontate la classifica delle regioni italiane per libri letti con quella del reddito pro capite, le posizioni coincidono quasi tutte. A parte questo, per il libro sono almeno cinque i punti chiave da cui iniziare la partita: scuole, librerie, biblioteche, comparto editoriale, promozione. Prima di addentrarci nel discorso, una premessa. La filiera del libro in Italia è piena di professionisti di valore. In particolare nelle case editrici (veniamo da una grande tradizione, siamo il paese di Aldo Manuzio) ci sono eccellenze che è difficile trovare anche nei paesi dove si legge più che da noi. Non ho invece mai visto niente di più avvilente dei nostri uomini politici – la maggior parte di essi – quando parlano con enfasi di editoria e promozione della lettura convinti di sapere ciò che dicono. Il mio consiglio a chi ci rappresenta è dunque: siate umili, per una volta fate prevalere l’ascolto sull’ansia di protagonismo. Il vostro compito è favorire il lavoro di chi sa farlo già egregiamente in un contesto ostile.

Cominciamo dalle scuole. Le biblioteche scolastiche sarebbero i luoghi perfetti per la promozione della lettura, se solo fossero sufficientemente attrezzate, se fossero attive (in molte scuole ci sono biblioteche dove in un anno non entra un libro), e soprattutto se ci fosse un bibliotecario, cioè una persona il cui compito è promuovere la lettura tra gli studenti, con strategie che variano a seconda del contesto in cui si trova. Attualmente nelle scuole le biblioteche sono affidate al buon cuore dei docenti che se ne occupano tra mille altre cose. La figura del bibliotecario scolastico – presente in quasi tutti i paesi europei – in Italia esiste solo nella provincia autonoma di Bolzano, non a caso una delle zone in cui in Italia si legge di più. Anche prevedere più tempo per la lettura ad alta voce potrebbe essere un’idea. È importante leggere un testo critico sui Fratelli Karamazov, ma se questo impedisce agli studenti anche solo di iniziare a leggere il capolavoro di Dostoevskij, c’è un problema.

Nei luoghi dove ci sono più librerie e più biblioteche pubbliche si legge di più. Non è solo la domanda che genera l’offerta: spesso accade il contrario. In paesi come la Francia o la Germania ci sono misure a sostegno delle librerie meritevoli (la manovra di dicembre introduce il credito d’imposta, ma è solo un inizio, bisogna fare decisamente di più) che ne fanno dei modelli esemplari. Per ciò che riguarda le biblioteche: esclusi i casi virtuosi (uno su tutti: la Sala Borsa di Bologna) le biblioteche oggi occupano uno spazio marginale nelle pratiche culturali degli italiani – prive di mezzi, drasticamente sotto organico, specie al sud, sono il settore per la promozione della lettura dove il margine di miglioramento è maggiore.

L’editoria italiana è dinamica e altrettanto audace. Non è infrequente che grandi autori stranieri vengano scoperti da noi prima che altrove, e non è raro che gli autori italiani abbiano un certo successo all’estero. A differenza di altri settori (come il cinema o il teatro) l’editoria libraria si autosostiene. Da una parte è un bene (la mancanza di assistenza pubblica costringe a innovare di continuo), ma questo non significa che una buona cornice normativa non possa rinvigorire un settore meritorio. Dai contributi alle traduzioni, a quelli per la vendita all’estero dei diritti d’autore di libri italiani, a un più vasto ed efficace piano di agevolazioni fiscali per chi acquista libri, anche qui, trarre ispirazione da ciò che accade in paesi più evoluti non fa male.

Qualche tempo fa, nel corso di fortunati incontri pubblici che chi ha visto ricorda, la pubblicitaria Annamaria Testa metteva a confronto le nostre campagne istituzionali di promozione alla lettura con quelle di altri paesi. Il paragone era imbarazzante. Di come una campagna di comunicazione istituzionale possa coprirsi di ridicolo ne abbiamo avuto dimostrazione con il Fertility Day. In questo caso il margine di miglioramento non esiste perché bisognerebbe proprio cambiare paradigma.»

In un periodo storico in cui qualcuno si è rimesso a bruciare i libri e in cui più in generale il sapere è trattato come un fastidio (dai “professoroni” ai “radical chic”) impegnarsi per un piano nazionale per la lettura è una rivoluzione culturali. E pensate come suonerebbe bene un’evoluzione in tempi di involuzioni continue. Ecco un impegno da prendere.