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«Se quello della sicurezza diviene un terreno da coltivare, anziché una questione da risolvere, occorre fare molta attenzione»

Davvero non c’è una spiegazione alle stragi d’Italia, agli omicidi eccellenti, alle collusioni pericolose? Davvero sono passati troppi anni dagli eventi per capire, per sapere, per ricordare? Davvero non c’è soluzione alle questioni del presente, che ci attanagliano ogni volta che parliamo del triangolo tra criminalità, politica e giustizia? Una croce a cui il nostro Paese sembra inchiodato da decenni senza molte possibilità di riscatto, con protagonisti che – a tutt’oggi – occupano le pagine dei giornali e portano i nomi di politici notissimi e faccendieri incarcerati, di imprenditori e amministratori della cosa pubblica che hanno raccolto scabrose eredità del passato, perfino di imbelli candidati alle elezioni prossime venture.

Ci interessa ancora la verità dei fatti o siamo rassegnati, ormai, a farci bastare la loro apparenza? Magari perché questa verità è scomoda da accettare o troppo complessa da esaminare, mentre la post-verità – che ne è la ’narrazione’ superficiale e banalizzata, come ricordano gli Oxford Dictionaries – grazie ad abbellimenti e sottrazioni riesce a distorcerla, trasformandola in qualcosa d’altro, più facilmente ricevibile? A evitarci, insomma, tutte quelle domande a cui non sappiamo dare risposta, riuscendo così a schivare anche le conseguenze che le risposte comporterebbero.

Il tema della post-verità, che non liquida la verità ma la rende superflua e irrilevante, è sotteso – fin dal titolo – al libro ”La verità sul processo Andreotti”, uno svelto volumetto (pp. 87, Editori Laterza), appena uscito in libreria, denso di nomi, fatti e date ma, soprattutto, di chiarimenti. È scritto da due magistrati, Gian Carlo Caselli e Guido Lo Forte, che hanno deciso di analizzare quel procedimento dal loro osservatorio privilegiato.

Dottor Caselli, affermate di voler ristabilire una prospettiva corretta contro il negazionismo.

L’idea del libro scritto con Lo Forte, collega della Procura di Palermo e pm nel processo Andreotti, nasce dalla constatazione che la verità sul processo è stata fatta a brandelli. La Cassazione ha confermato in via definitiva la sentenza della Corte d’appello di Palermo, che ha dichiarato “il reato di associazione a delinquere [con Cosa nostra] commesso fino alla primavera del 1980”, ma prescritto per decorso del tempo. Eppure un’ossessiva campagna di fake news – a tutti i livelli – ha truffato il popolo italiano (in nome del quale le sentenze vengono pronunciate), facendogli credere che l’imputato sia stato pienamente e felicemente assolto. Non esiste in natura un imputato assolto per aver commesso il fatto! È un’offesa alla logica e al buon senso. Eppure, ancora recentemente ho letto che Andreotti non fu condannato “perché non si riuscì a dimostrare che si fosse mai adoperato personalmente per favorire Cosa nostra”. Invece è scritto a tutto tondo nella sentenza della Corte d’appello – confermata in Cassazione – che l’imputato “con la sua condotta […] ha non senza personale tornaconto, consapevolmente e deliberatamente coltivato una stabile relazione con il sodalizio criminale e arrecato, comunque, allo stesso un contributo rafforzativo, manifestando la sua disponibilità a favorire i mafiosi”. E tutto questo sulla base di un elenco dettagliato di fatti gravi, tutti provati. Non fu condannato solamente in quanto il reato commesso era prescritto. Senza che l’imputato avesse rinunciato alla prescrizione, come avrebbe potuto.

Una vicenda emblematica del processo Andreotti?

Tra i tanti fatti gravi provati, ne ricordo uno in particolare. La partecipazione a due incontri con Stefano Bontade e altri boss (presenti Lima e i cugini Salvo) per discutere di fatti criminali riguardanti Piersanti Mattarella, l’onesto presidente della Regione Sicilia ucciso dalla mafia il 6 gennaio 1980. Senza che Andreotti abbia mai denunciato, a nessuno, gli elementi utili a far luce su tale delitto che pure conosceva, in quanto derivanti dai diretti contatti avuti coi mafiosi.

Esistono somiglianze con l’attuale processo sulla trattativa Stato-mafia?

Lo Forte ed io abbiamo pensato che potesse essere utile nel caso Andreotti chiarire le vicende processuali in sé, anche per comprendere meglio alcuni aspetti essenziali della storia del nostro Paese. Lo sviluppo della trattativa Stato-mafia (su cui è ancora in corso un delicato processo a Palermo, attualmente in gran parte a giudizio in primo grado, con alcune posizioni trattate in “abbreviato”), nel libro viene inquadrato nell’ambito della politica di “relazioni esterne” con la società e lo Stato, che caratterizza tutta la storia di Cosa nostra. Un susseguirsi di rapporti – a seconda della stagione – di coesistenza o di compromesso, di alleanza o di conflitto: dalla strage di Portella della Ginestra al Golpe Borghese; dagli omicidi politici mafiosi degli Anni Settanta/Ottanta alla stagione del pool antimafia e del maxiprocesso; dalla strategia stragista degli anni ‘92-’93, con la cornice appunto delle “trattative”, fino agli scenari attuali.

Come valuta la recente riforma delle intercettazioni?

Il mio giudizio coincide con l’intervento di Roberto Scarpinato, che MicroMega ha pubblicato integralmente. Vero è che il ministro Andrea Orlando ha promesso una sorta di “monitoraggio”, con riserva di modificare la riforma all’esito ove le perplessità di Scarpinato e altri risultassero riscontrate in concreto. Ma non sappiamo chi sarà il nuovo ministro della Giustizia. Se fosse ancora Orlando, secondo me, ci si potrebbe fidare. Ma se non fosse lui? Se fosse, per esempio, l’avvocato Giulia Bongiorno (una delle possibili candidate del centro-destra) avrei qualche perplessità in più. Non tanto per la sua posizione nel merito della riforma (anche Bongiorno ha espresso alcune critiche), quanto piuttosto per quel che dell’avvocato si può leggere nelle prime due pagine dell’introduzione al nostro libro sul processo Andreotti. Una questione di metodo, spoglia di profili “personali”.

Il tema della legalità è uno dei grandi assenti di questa campagna elettorale.

Paradossalmente viene da dire: meglio così! Che in campagna elettorale non siano inflitti ulteriori colpi a un vocabolo – quello della legalità – che soffre da tempo. Che va protetto e usato con parsimonia per evitarne la strumentalizzazione da parte di personaggi impresentabili, che hanno scelto di convivere (se non peggio) con il malaffare. La speranza è che nella nuova legislatura si parli di legalità non più come slogan, ma come obiettivo vero. Da perseguire senza cedere a quell’altra tentazione tipica di certa politica: l’evaporazione dei fatti, la cancellazione del mondo reale che ci circonda. Il mondo reale, oggi, parla di una grandissima quantità di risorse sottratte dall’illegalità economica (evasione fiscale, corruzione e mafia). Una rapina che si traduce nel colossale impoverimento della nostra collettività. Senza risorse, la qualità della vita è fatalmente destinata a peggiorare. Perciò la legalità non è solo questione di “guardie e ladri”, ma costituisce per tutti un vantaggio, una diretta convenienza. La buona politica dovrebbe muovere in questa direzione. Non correre con occhi bendati in direzioni di cui s’ignora il senso oppure in una direzione conosciuta e utile sempre e soltanto ai “soliti noti”.

Cos’è più urgente fare per migliorare la situazione della giustizia in Italia? Quali misure dovrebbe attuare un futuro governo?

Diciamo prima quel che non si dovrebbe fare mai. La separazione delle carriere fra pm e giudici, che invece tanto sta a cuore a molti avvocati e a Silvio Berlusconi, il quale va ancora raccontando la storiella dei magistrati che prendono il caffè insieme e quindi per ciò stesso farebbero… pastette. La separazione sarebbe una vera jattura, perché in tutti i paesi in cui c’è separazione, il pm di fatto prende ordini o riceve direttive vincolanti dal governo. Dovremmo, in Italia, rinunciare all’indipendenza dei pm e darli in pasto a certa politica, quella che – ripeto – è fatta anche di impresentabili? Sarebbe un vero e proprio suicidio per la prospettiva di una giustizia che punti alla eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Quanto alle misure da attuare in positivo mi limito a due punti essenziali: la riforma della prescrizione (siamo l’unico paese al mondo, in cui essa non si interrompe mai) e la riforma dei gradi giudizio. Se proprio non si vogliono ridurre (anche in questo caso siamo l’unico paese al mondo con un rito processual-penale di tipo accusatorio che tollera una pletora di gradi), almeno si introducano dei severi filtri di grado in grado, per impedire i ricorsi inutili, pretestuosi e dilatori. Altrimenti il processo non finisce mai! È ipocrita lamentarsi poi se tutto ciò comporta una giustizia denegata al posto della giustizia.

Sta emergendo un fenomeno nuovo di cui si parla ancora poco: le mafie organizzate da immigrati nel nostro Paese, ad esempio quelle nigeriane.

Le mafie di “importazione” (dalla Nigeria come dall’Est europeo) vanno contrastate con la stessa determinazione con cui si combattono le organizzazioni “indigene”. Forze dell’Ordine e magistratura già lo fanno. Probabilmente servirebbero strumenti legislativi (un aggiornamento del 416 bis) specificamente mirati su queste nuove realtà.

Mafie, criminalità, immigrazione senza regole alimentano un clima di tensione, aggressività e timori incontrollati, utilizzati a volte per fini politici distorti e dalla cattiva informazione. È esagerato parlare di governo della paura?

Paura e insicurezza sono problemi seri da affrontare e possibilmente da risolvere. Invece sempre più di frequente si rivelano occasioni da sfruttare. Questi mali da sanare, sembrano essersi trasformati in opportunità d’investimento politico e massmediatico. Prima si accresce la paura – che c’è per cause obiettive – ma ci si lavora su per espanderla. Poi, invece di governarla, si finisce per restare governati dalla paura, nel senso che è la paura che oggi (molte, troppe volte) sembra dettare le scelte della politica e dei media. Con rischi evidenti di deriva democratica.

Come si comporta una società che ha paura?

Qui ‘rubo’ una formula al mio amico, don Luigi Ciotti: la sicurezza rischia di trasformarsi in una specie di killer. Nel senso che (intesa in un certo modo) cancella o, quantomeno, pregiudica decenni di lavoro sulle radici della violenza. Se la paura è un’opportunità di investimento, facilmente avremo non riforme vere, ma più che altro gesti simbolici, rassicuranti, un’indignazione che spesso può essere in prevalenza strumentale. Inoltre (forse non ce ne rendiamo conto, ma è sempre più così) impariamo a vivere nell’ostilità contro tutto e tutti, specie quando non si va oltre il recinto delle nostre individualità, degli interessi particolari o personali. Tuttavia vivere immersi nella cultura del sospetto non è più vita: succede che si modifica, in negativo, la qualità della nostra esistenza. Anche perché si comincia così e poi non si sa dove si va a finire. Oggi i rom, domani chissà.

Ma la sicurezza non è argomento più che valido, tanto più per chi – come lei – ha trascorso una vita da magistrato?

Se quello della sicurezza diviene un terreno da coltivare, anziché una questione da risolvere, occorre fare molta attenzione: i timori si autoalimentano. Le risorse a disposizione saranno prevalentemente, se non esclusivamente, convogliate su controlli e sempre più controlli (tipica la richiesta di impiego dell’esercito), su forme di repressione, nuovi reati e così via. Sempre meno, invece, saranno le risorse impiegate per scuole, ospedali, alloggi, più lampioni in periferia, trasporti pubblici meno degradati, politiche di inserimento e integrazione. Col risultato che, nel medio-lungo periodo, la criminalità invece di diminuire rischia di aumentare o rimanere sui livelli che già la caratterizzano. Il che comporta un aumento dell’insicurezza. Ecco il cortocircuito, pericoloso quando non si superano i luoghi comuni. Quando non si cerca di ragionare con la testa anziché con la pancia.

www.micromega.net , 1 marzo 2018