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La “retorica” delle torture in Libia

Non c’è bisogno di andare in Libia. No. Basta visitare la faccia feroce che vomita i denti durante il suo processo  di Osama Matammud, detto “Ismail”, 22 anni al momento del suo arresto a Milano, dove era stato riconosciuto da alcune delle sue vittime, nei pressi della Stazione centrale e se non l’avessero acciuffato per i capelli l’avrebbero vendicato lì, come animali, con le sue vittime che sognavano di diventare aguzzini.

Il procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini ha detto di lui “non ho mai visto in quarant’anni di carriera un orrore simile”. E la Boccassini è una che in quarant’anni ha attraversato di tutto, scavalcato vittime di mafia diventate poltiglia. Ma un orrore così non l’ha mai visto, dice. Il procuratore di Milano Francesco Greco ha provato anche a dire che forse sarebbe il caso che l’Italia, “mentre fa trattati con i Paesi per la gestione dei flussi migratori”, forse sarebbe il caso che si occupi anche del rispetto dei diritti umani, ha detto il procuratore. Ma non l’ha ascoltato nessuno. Anzi, forse, non l’ha nemmeno sentito nessuno, nemmeno ascoltato. Ismail a casa loro si occupava del centro raccolta migranti di Bani Al Walid, in Libia, in provincia di casa loro. “Ismail si divertiva a picchiarci sempre – racconta uno dei testimoni del processo di cui non si è accorto nessuno – con sbarre di ferro, bastoni, tubi di gomma e calci e pugni. Si accaniva, io più volte l’ho visto con dei tondini di ferro pieni, di quelli che si usano per i lavori di muratura, spaccare le caviglie e i polsi di molte persone”. “A volte accendeva un sacchetto di plastica sopra la schiena, facendo colare la plastica incandescente, altre volte torturava con le scariche elettriche. Io stesso sono stato portato nella ‘stanza delle torture’. Ismail per me aveva trovato una tortura particolare. C’era un punto della stanza dove passava il sole dall’alto dato che questa stanza era in un edificio in parte scoperto. In questo punto della stanza faceva caldissimo. Ismail mi legava mani e piedi dietro la schiena e mi lasciava per ore sdraiato per terra finché mi disidratavo e orinavo addosso”.

Ismail che sceglieva le ragazze, tutte le sere: entrava nello stanzone dove si sta tutti ammassati, nuotando nelle proprie feci, e sceglieva le più carine. Si sentivano le urla, dicono, dalla stanza delle torture. E si sentivano le donne, urlare anche loro, finché lo sfinimento non vinceva. E allora si faceva silenzio tutto intorno, fino alla sera successiva. Ismail che se non arrivavano i soldi allora alla fine i prigionieri diventavano solo un costo, perché tocca mantenerli, perché non avrebbero mai potuto proseguire nel viaggio e dare merda da mangiare comunque costa: Ismail che chi non pagava veniva impiccato e poi morto buttato in mezzo agli altri come un sacco di iuta afflosciato anche se ancora pieno di tendini, come ammonimento a non sgarrare.

La retorica delle torture è quel timpano rotto da cui la condanna a Ismail, che pure si è consumata qui, da noi, a Milano, non è passata: l’ergastolo a Ismail l’avete sentito? Ve ne siete accorti? Ismail è l’opuscolo turistico di casa loro, arrivato fin qui.

Buon martedì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/06/26/la-retorica-delle-torture-in-libia/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

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