Vai al contenuto

#Carnaio. La recensione di Erika Pucci

fonte: versiliatoday

Carnaio” (Giulio Cavalli, Fandango 2018)

“La barca mi ha insegnato che non è vero che domani andrà meglio, no, domani potrebbe piovere, potrebbe alzarsi il vento di Ponente, i pesci potrebbero decidere di schifare l’esca che si sono sempre mangiati, loro e i loro padri e i loro nonni, potrebbe sbiellarsi il motore, potrebbe incagliarsi la rete e magari ti tocca anche tagliare l’ancora.” 

La storia raccontata nel romanzo da Giulio Cavalli si svolge a DF, un paesino nel Mediterraneo sconvolto da ondate di cadaveri che si arenano sulla spiaggia. “Quelli”, così vengono ribattezzati i cadaveri, sono tutti di carnagione scura, provenienti da un altrove che, ai molti, non importa specificare. La vita del Paese sommerso dai cadaveri restituiti dal mare sui lidi di DF viene stravolta: i corpi sono sempre più numerosi, dal governo centrale nessuno dà indicazioni su come gestire l’emergenza. Allora il sindaco e le altre persone in vista del paese decidono di affrontare autonomamente la questione dei cadaveri: viene costruita una barriera affinché i corpi stiano confinati dai paesani, si ottiene l’autonomia politica e governativa, e dai cadaveri si cerca di ottenere il massimo del rendimento in termini di business economici. Niente dei cadaveri si butta via.

Lo scenario è un crescendo angosciante dove la paura del diverso instaura un clima di paura, censura, libertà violate come nelle dittature. Nessuno si salverà da questo orrore, tutti finiranno nel carnaio di DF.

Chi non si adatta diventa straniero. Chi è straniero diventa un impiccio, anche se un’ora prima era tua moglie, tuo fratello, tua figlia.”

La narrazione di Cavalli è affidata a diversi personaggi in vari stadi della situazione: questo è un espediente vincente perché riesce a dare voce a diversi punti di vista sulla “sciagura” che ha investito il paese e, al contempo, di sbirciare nelle piccole grandi quotidianità di numerose vite uniche e paradigmatiche.

Il cinismo, la paura del diverso, il terrore dell’altro, l’incapacità di governare un’emergenza umanitaria toccano nel libro di Cavalli confini inimmaginabili eppure, a pensarci bene, possibili. La lettura fa davvero male, male fisicamente, oltre che emotivamente: ci sono dei passaggi crudeli delineati con schiettezza, senza mai cadere nel melodramma, capaci per questo di essere ancora più potenti. Di certo la consapevolezza di quanto Cavalli sia da sempre seriamente impegnato nell’informare sullo stato dei migranti nelle vie del mare, rendo tutto ancora più angosciante: l’universo da lui delineato in questo romanzo distopico è solo un’iperbole di micro comportamenti che in fieri già strisciano nei luoghi comuni e nell’approccio governativo attuale.

Il passaggio che, in qualche modo, ho trovato colmo di speranza è indubbiamente quello affidato alla voce di Angelica Magnani: al di là dell’epilogo della vicenda sua e della propria figlia e di eventuali scelte fatte, è proprio nella sua volontà di non restare indifferenti e nella consapevolezza di poter sempre scegliere tra il bene e il male, che, in fondo, la speranza può sopravvivere anche nel peggiore dei futuri possibili.

“Quello che voglio è non diventare come loro, con tutte le mie forze. Mi sforzo di tenere a memoria il giusto e lo sbagliato, il tollerabile e l’intollerabile, la normalità e la ferocia”