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“Carnaio” di Giulio Cavalli, la distopia è qua (ed è un mondo in cui tutto è sopportabile): Francesco Cancellato recensisce Carnaio

Candidato al Premio Strega, il romanzo dell’attore-giornalista-scrittore è un crudo racconto di quel che siamo diventati: impauriti, depressi, incapaci di indignarci e di resistere all’adattamento

Giulio Cavalli non è un teatrante, anche se ha passato metà della sua vita a scrivere e recitare, rinverdendo e innovando la tradizione del teatro d’impegno civile. Non è nemmeno un politico, a dire il vero, anche se ha un passato e un presente di attivista che gli è valsa l’elezione in consiglio regionale lombardo, con l’Italia dei valori. Non è nemmeno un giornalista, anche se scrive su diverse testate giornalistiche (compresa Linkiesta) e ha diretto un mensile come Left. Forse, oggi, abbiamo capito cos’è Giulio Cavalli. Uno scrittore. Perché dopo l’esordio di “Mio padre in una scatola da scarpe” (Rizzoli, 2015), seguito dall’autobiografico Santamamma (Fandango, 2017) è con “Carnaio” (edito sempre da Fandango) che Cavalli trova davvero il suo tono narrativo, la sua visione del mondo, la sua dimensione etica. E non è un caso che sia stato proposto per il Premio Strega da Concita De Gregorio, che racconta Carnaio come “il termometro sociale e politico del tempo che viviamo (…) il paese chiuso, appestato, impenetrabile dove gli abitanti si arricchiscono e blindano il segreto inconfessabile della loro ricchezza mentre sono, nel tripudio del cinismo, destinati all’estinzione”.

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È questo, ma è anche molto di più, Carnaio. Un libero che stupisce per come affronta il tema dell’immigrazione e delle morti nel Mediterraneo senza nessuna concessione all’umanità e al pietismo, mostrando ancora di più quanto un morto sia una persona e migliaia di morti una statistica

È questo, ma è anche molto di più, Carnaio. Un libero che stupisce per come affronta il tema dell’immigrazione e delle morti nel Mediterraneo senza nessuna concessione all’umanità e al pietismo, mostrando ancora di più quanto un morto sia una persona e migliaia di morti – in questo caso una serie di cadaveri identici l’uno all’altro che emergono dal mare che lambisce DF, arrivando a sommergerlo – una statistica. Stupisce per la violenza distopica della reazione degli abitanti di DF, dapprima terrorizzati di fronte alla marea di corpi che gli si rovescia addosso, e poi cinicamente disposti a fare di quell’ammasso di corpi (non più) umani una fonte di guadagno ed emancipazione. Stupisce per il linguaggio asciutto e crudo che ha fatto accostare Cavalli a predecessori del calibro di Saramago e Bolano, ma anche al Cormac McCarthy postapocalittico de La Strada in cui, al pari, gli uomini erano cibo per altri uomini. Stupisce per il disincanto con cui descrive la politica, spogliata non solo di ogni idealismo, ma anche di ogni resistenza all’adattamento sempre e comunque. 

Ciò che più di tutto stupisce, però, è che l’impianto narrativo di Cavalli ha una potenza e una profondità che travalica il genere della distopia politica per diventare un romanzo-mondo, universale, che nel disumanizzare racconta l’Uomo (con la U maiuscola) del ventunesimo secolo meglio di qualunque introspezione psicologica. Carnaio, in fondo, è il racconto dell’Uomo che si abitua a tutto, che rinuncia alla lotta contro l’ingiustizia, che si abbandona allo status quo per inerzia, per tirare a campare. Ma è anche il racconto della depressione, il male del secolo, la marea nera che improvvisamente, senza un motivo, sommerge ogni cosa e lascia soli a lottare contro i propri demoni. Se nel ’68 era il personale che si faceva politico, cinquant’anni dopo è il politico che diventa personale, è la lotta di classe tra ego ed es che si combatte sul lettino dello psicanalista, è l’antidepressivo che rende tutto più sopportabile. Anche 26mila cadaveri che sono cibo per i pesci nel Mediterraneo centrale, accatastati nelle nostre coscienze di chi sull’altra sponda, gira le spalle al mare.

(fonte)