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In Veneto la mafia non esiste: l’operazione Camaleonte

Due articoli da ritagliare de Il Fatto Quotidiano.

Sono i fratelli Michele e Sergio Bolognino, condannati nel primo grado del processo Aemilia (37 anni e 11 mesi il primo, 19 anni e 3 mesi il secondo) i due capi dell’organizzazione criminale di stampo mafioso messa sotto accusa dall’inchiesta Camaleonte della Dda di Venezia. Avevano esportato in Veneto, operando sulle province di Padova e Venezia tra il 2012 e il 2015, le attività di usura, estorsione e falsa fatturazione in cui eccelleva la cosca emiliana Grande Aracri/Sarcone di cui facevano parte. Utilizzando metodi brutali e l’inventario tipico delle minacce e delle violenze mafiose. Dice Bolognino, intercettato al telefono, all’imprenditore veneto Stefano Venturin: “Se non fai quello che dico io ti spacco le gambe, ti spacco la testa. Tu e la puttana di tua moglie dovete lavorare per me e stare zitti”. Gli porteranno via tanti soldi e una impresa, la GS Automazioni srl, arrivando a mandarlo in ospedale a suon di pugni in faccia, davanti alla moglie presa a schiaffi mentre piange. Il perché di tutto ciò non ha bisogno di tante spiegazioni: “I soldi; con le buone o le cattive”, dicono i due fratelli. Venturin è una sorta di bancomat per la cosca: Michele Bolognino si fa pagare le proprie spese, come il noleggio di auto costose, mentre suo fratello Sergio gli manda il conto dei propri mobili di casa. E quando Venturin nomina un nuovo amministratore della società, Mario Coda, le minacce raggiungono anche lui: “Vuoi che ti facciamo fare la fine dello scemo che ti ha messo come amministratore?” Ancora più duro un altro uomo della cosca, il cutrese residente a Bologna Mario Vulcano, condannato di Aemilia a 26 anni e 6 mesi in primo grado. È lui che dopo aver picchiato l’intermediario in una trattativa, Roberto Alfieri (due denti rotti e problemi alla vista diagnosticati in ospedale per le botte subite), dice ad una seconda vittima: “Roberto non lo chiamare più perché mo’ è in ospedale. Lo abbiamo appena picchiato. Lo dovevi sentire: aiuto! ..aiuto! ..mi vogliono uccidere! ..per strada come un gatto urlava”. Per concludere con la frase più esplicita possibile: “Io sto facendo il mafioso, qua”.

Fare i mafiosi significa non perdonare nulla, anche per cifre modeste. I fratelli Bolognino minacciano Diego Carrano, titolare di una società che noleggia autovetture di lusso, al quale hanno prestato 10mila euro il 22 maggio 2013 e nel giro di un mese ne rivogliono 13mila con un interesse usuraio del 300%: “Pezzo di merda, vengo e ti prendo a te, tua moglie e tuo figlio, ti squaglio dentro l’acido, tutti vi ammazzo, hai capito bastardo? Tu pensa e spera la Madonna che non ci vediamo mai”. Un anno dopo Giuseppe Giglio, il collaboratore di giustizia del processo Aemilia, vende allo stesso Carrano un bolide Ferrari di lusso e siccome l’ultima rata da 40mila euro non viene pagata nel giorno stabilito, i fratelli Bolognino, assieme a Richichi, Blasco e Mario Megna, lo attirano in una trappola per picchiarlo il 24 maggio 2014. Non ci riusciranno perché interviene la Polizia Giudiziaria che intercetta le conversazioni. Così si mostrano gli uomini della cosca emiliana ai terrorizzati imprenditori veneti: violenti e privi di scrupoli. Lontani anni luce dall’immagine di persone miti, vittime pacate e incolpevoli dell’accanimento giudiziario, che avevano cercato di accreditare solo qualche mese prima nell’aula bunker di Reggio Emilia, per difendersi dalle accuse dei pm Marco Mescolini e Beatrice Ronchi.

L’operazione Camaleonte estende al Veneto, grazie alla residenza di Sergio Bolognino a Tezze sul Brenta in provincia di Vicenza, le profonde radici piantate dalla cosca in Emilia. Per 33 indagati il giudice Gilberto Stigliano Messuti ha disposto l’arresto o l’obbligo di firma. La procura di Venezia aveva richiesto 58 misure cautelari, in maggioranza riguardanti persone domiciliate in Veneto, ma la provincia più colpita è Reggio Emilia, il cuore della ‘ndrangheta proveniente da Cutro, dove risiedono 18 indagati. I nomi più noti, oltre ai fratelli Bolognino, sono quelli di Giuseppe Giglio e Giuseppe Richichi (di Montecchio); Gianni Floro Vito (Scandiano), Michele Colacino (Bibbiano), Gaetano Blasco, Antonio Muto e Francesco Scida, residenti a Reggio città.

Le indagini portano alla luce un insieme di reati raccolti in oltre 130 capi di imputazione, il primo dei quali è il 416 bis, l’associazione di stampo mafioso, contestata a Michele e Sergio Bolognino, Giuseppe Richichi e Donato Agostino Clausi, il commercialista dei Grande Aracri condannato in via definitiva a Bologna a 10 anni e 2 mesi di carcere. Da un lato ci sono le estorsioni e le violenze commesse ai danni di imprenditori veneti, caratterizzati da minacce e da episodi di aggressione fisica, dall’altro un costante ricorso alla falsa fatturazione per operazioni inesistenti con l’obbiettivo di riciclare il denaro proveniente dalla cosca. I soldi salgono spesso dall’Emilia al Veneto a pacchetti di decine di migliaia di euronascosti in borse di pelle, prima di fare ritorno ripuliti attraverso bonifici su una miriade di conti postali aperti nelle province di Reggio Emilia e Modena. Ad andare all’incasso, tra gli altri, c’era anche l’unica donna ancora latitante della cosca reggiana, scomparsa all’alba degli arresti compiuti il 28 gennaio 2015 e ancora irreperibile: Baachaoui Karima. È la segretaria tuttofare di Gaetano Blasco, considerato un organizzatore della cosca reggiana e condannato alla pena più pesante del processo Aemilia: 38 anni e 4 messi in primo grado.

Ben 116 capi di imputazione dell’operazione Camaleontecondotta dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Venezia contro la cosca Grande Aracri, riguardano truffe societarie, false fatturazioni per operazioni inesistenti, spostamenti di soldi funzionali a riciclare denaro sporco e a generare contante pulito. Un sistema consolidato di ricorso agli uffici postali in Emilia Romagna che utilizzava le società di incensurati imprenditori veneti per far perdere le tracce delle operazioni illecite compiute. L’inchiesta, come in Aemilia, evidenzia un impressionante utilizzo di Poste Italiane come principale deposito e cassa per la ‘ndrangheta delle famiglie Grandi Araci/Sarcone. Una cosca che in quindici anni, all’inizio del terzo millennio, ha conquistato le tre regioni più ricche del nord, LombardiaVeneto ed Emilia Romagna, dove si realizza il 40% del Pil italiano e dove la domanda di soluzioni illecite per evadere il fisco ed abbassare i costi è dilagante nel ricco tessuto economico.

I passaggi delle tantissime operazioni fraudolente raccontati dall’inchiesta Camaleonte si riassumono in poche righe. In primo luogo gli emissari della mafia consegnavano agli imprenditori veneti (minacciati o collusi) il contante da riciclare, attraverso incontri in luoghi sempre diversi. Poi le società gestite o controllate dalla cosca emettevano fatture false verso le aziende dei medesimi imprenditori che provvedevano a pagare con bonifici, depositati sui conti correnti postali della provincie di Reggio Emilia e Modena dove i soldi venivano ritirati con un vorticoso giro di prelievi sempre per piccole cifre. È’ il cosiddetto “smurfing”, cioè l’insieme di movimentazioni ripetute e di modesta entità messe in atto per restare al di sotto della soglia d’attenzione.

Una delle tante operazioni compiute rende chiaro il giro. Il 30 settembre 2013 alle 11,30 Sergio Bolognino incontra Gianni Floro Vito presso il casello autostradale di Mantova Nord. Un’ora dopo lo stesso Bolognino incontra Antonio Brugnano al casello di Nogarole Rocca. Due ore dopo è al parcheggio dell’ospedale di Cittadella, in provincia di Padova, dove incontra Leonardo Lovo. Sono tutti già condannati in Aemilia o sotto indagine in Camaleonte. Questa è la fase della consegna dei soldi. Il giorno dopo due società venete, la Biasion Group srl e la Universo Costruzioni srl, effettuano tre bonifici rispettivamente di 25mila, 11mila e 10mila euro sui conti correnti postali di due società riconducibili alla galassia della ‘ndrangheta: la Immobiliare Tre srl, società cartiera dell’arcetano Gianni Floro Vito, e la Service srl del reggiano Antonio Brugnano.

La settimana successiva tutti quei soldi vengono prelevati dai postamat di 19 uffici postali nelle provincie di Reggio Emilia e Modena utilizzando tre diverse carte intestate a Floro Vito e Brugnano. Sei prelievi a Carpi, sei a Reggio, uno ad Arceto, due a Cadelbosco Sopra, tre a Correggio, uno a San Martino in Rio, uno presso lo sportello Posta Impresa di Reggio Emilia. È la stessa modalità di riciclaggioevidenziata in cento operazioni da Aemilia, dove gli sportelli postali, con carte individuali o societarie (Posta Impresa), sono i più frequentati dalla ‘ndrangheta.

Una delle società cartiere utilizzate per raccogliere i soldi provenienti dal Veneto è la Re.Com. srl, che ha sede a Reggio Emilia e commercia materiali per l’edilizia. Legale rappresentante è Francesco Scida: secondo l’accusa è prestanome di Giuseppe Giglio Gianni Floro Vito. In meno di un anno, tra gennaio e novembre 2014, sul suo conto corrente postale entrano bonifici per 3 milioni e 200mila euroed escono attraverso prelievi e vaglia 3,3 milioni con un totale di circa 1200 movimentazioni. È una società che presenta i tre indicatori di anomalia necessari a definire una alta pericolosità di infiltrazione: intensa attività bancaria, assenza di dipendenti e di organizzazione imprenditoriale, assenza di dichiarazioni fiscali. Un evasore totale, in sostanza, che però sfruttava in tutta tranquillità i postamat di Reggio Emilia e provincia per le proprie operazioni.

A lanciare l’allarme sulle falle del sistema postale nel controllo delle movimentazioni economiche mafiose fu nel 2016 il sindacato Slc Cgil dell’Emilia Romagna, che un anno dopo i 117 arresti di Aemiliaraccoglieva le dichiarazioni dei propri iscritti dipendenti di Poste Italiane: “La situazione si è aggravata. Il fatto è diventato sempre più evidente e preoccupante (nonostante gli arresti di Aemilia). Una certa tipologia di clientela sta letteralmente prendendo d’assalto gli uffici postali del territorio, ritirando in continuazione e quasi giornalmente denaro contante proveniente da bonifici. Sono movimentazioni di denaro per volumi complessivi molto rilevanti, realizzate utilizzando una pluralità di carte che risultano poi collegate a conti correnti postali radicati in particolare nelle province di Reggio Emilia e di Modena. Sono originari per la maggior parte della regione Calabria e dalle ultime segnalazioni anche della regione Campania. Gli operatori che fanno il loro dovere, che segnalano operazioni sospette, incorrono nelle velate minacce da parte di questi particolari clienti”.

Il 7 settembre 2016 depose nell’aula di Aemilia Loretta Medici, ex direttrice di PosteImpresa Reggio, attraverso i cui sportelli passavano anche i soldi riciclati dal Veneto. Rispondendo al Pubblico Ministero ammise di essere in confidenza con Gianni Floro Vito, poi condannato a 20 anni e 11 mesi, che due o tre volte alla settimana caricava il conto della sua “Immobiliare 3 srl” a botte di 50, 60, 80mila euroattraverso assegni o bonifici da altri istituti, e subito dopo li prelevava trasformati in contanti.