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Una mia intervista su “Mafie Maschere e Cornuti”

Irriverente, beffardo, pungente… questo è Giulio Cavalli in “Mafie maschere e cornuti”, lo spettacolo – in collaborazione con l’Archivio storico del cabaret italiano – andato in scena al teatro “De Sica” di Peschiera Borromeo giovedì 21 marzo 2019 in occasione della Giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie.

Un insieme di storia, comicità, atti giudiziari, articoli di giornale, aneddoti, domande e riflessioni che colpiscono gli spettatori – che l’artista rende parte attiva dello show – come stilettate. Non mero ascolto, non semplice presenza in sala; Cavalli si aspetta risposte dal pubblico, pretende ragionamenti, esige che si «alleni il muscolo della curiosità». E colpisce come, durante la serata, la maggior parte delle risposte arrivi da un’adolescente più che dagli adulti, che certi fatti li hanno vissuti o ascoltati almeno nelle cronache.

A partire dall’eredità lasciataci dai giullari del ?500, che deridevano i potenti con le loro parole, finendo per questo spesso decapitati; Giulio Cavalli ricorda come la risata sia l’arma più potente contro chi ha potere e lo esercita senza rispettare le regole. E nel “racconto del potere” rientrano politica, economia e mafia. Quest’ultima, in particolare, viene smontata dall’artista a ogni episodio della narrazione; l’onorabilità – tanto importante per la mafia nella proiezione che intende dare di sé – viene meno a ogni passo dello spettacolo, quando l’artista racconta di mafiosi che si incontrano nella cella frigorifera di un negozio di ortofrutta per evitare di essere intercettati, di latitanti ritenuti all’estero che riescono chissà come a procreare, dei covi di altri “potenti” ridotti a vivere come poveracci, di boss e figli di boss che si smontano da soli semplicemente con le loro dichiarazioni in aula o ai giornali, e tanto altro ancora.

Ripercorrendo dunque le operazioni antimafia degli ultimi anni, Cavalli mostra una mafia diversa, una mafia che – tolta la rappresentazione che riesce a dare di sé anche grazie a chi la racconta (in quello che lo stesso artista chiama “concorso culturale esterno”) – fa davvero ridere e non fa più così paura. Ma allora, di cosa bisogna aver paura? La risposta la fornisce lo stesso Cavalli, citando Mark Twain «Non bisogna avere paura di ciò che non si conosce, ma bisogna temere ciò che crediamo vero e invece non lo è».

Sul palco, insieme a Cavalli, il fisarmonicista Guido Baldoni che non rappresenta solo l’accompagnamento musicale dal vivo con brani originali ma è parte sostanziale dell’esibizione con la sua capacità di sottolineare i momenti più emblematici e dialogare con l’artista.

Incontriamo Giulio Cavalli nel foyer del teatro, per una breve ma significativa intervista con 7giorni:

Giulio, quale domanda vorresti non ti fosse mai fatta in un’intervista?

«Quelle sulla scorta, niente domande sulle scorte».

E quale invece vorresti che ti venisse fatta e non ti è mai stata fatta?

«La domanda di qualcuno che si informa prima di intervistare».

Come sono cambiate le mafie dal tuo spettacolo “A cento passi dal Duomo” a oggi?

«Sono molto più nascoste, rincorrono meno il mito – tant’è che il maggior produttore di mito mafioso in Italia è un antimafioso – e rincorrendo meno il mito si prestano anche meno, se vuoi, alle giullarate perché sono molto barbosi, sono molto grigi, incravattati, quindi sono imprenditori, politici… Diciamo che il manovale non esiste quasi più perché è un ruolo completamente subappaltato alle comunità di altre etnie, alle famose risorse come le chiama Salvini, e quindi essendo tutti colletti bianchi viene per noi anche più difficile raccontarle. Io penso che non sia un caso che nello spettacolo di oggi noi parliamo di Riina e Provenzano, che comunque sono macerie delle mafie e non sono sicuramente contemporaneità».

Come sono cambiati invece i tuoi spettacoli negli anni? Hanno avuto un’evoluzione?

«Mi interessa molto meno sostituirmi ai giornalisti, ai magistrati o a sedicenti associazioni antimafia e mi interessa fare semplicemente il mio ruolo. Il mio ruolo è quello di smutandare e quindi di provocare la risata. Se qualcuno ha bisogno di verificare la mia credibilità interrogandomi sugli atti giudiziari, vuol dire che ha un problema di autostima lui, non io».

Insomma se è vero che «una risata vi seppellirà» ridere di mafia, per usare sempre le parole di Giulio Cavalli, «è antiracket culturale, e le mafie – come tutte le cose terribilmente serie – meritano di essere derise».

Elisa Barchetta (fonte)