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DF è il centro del modo che scivola verso l’orrore.
Una mattina apparentemente come tante altre, un pescatore – Giovanni Ventimiglia – di ritorno dalla pesca mattutina trova un cadavere tra gli scogli. Dopo alcuni giorni ne viene ritrovato un altro, sulla spiaggia. E poi ancora, sempre di più, corpi morti che arrivano dal mare e riempiono la spiaggia, le vie, la piazza della cittadina di DF, che la rendono un vero e proprio carnaio.
Gli abitanti sono sconvolti, così come il commissario di polizia, il sindaco, tutta l’amministrazione comunale. Le autorità locali non sanno cosa fare di fronte a queste ondate di morte, di questi corpi ammassati di giovani, tutti simili tra loro,
cadaveri tutti di sesso maschile, eccezionalmente tutti di età apparente tra i 20 e i 25 anni, tutti eccezionalmente di altezza tra cm 177 e cm 180, tutti eccezionalmente di peso corporeo tra 78 kg e 81, di identica corporatura, tutti di nutrizione buona.
Le cause della morte restano sconosciute, non si sa nemmeno da dove arrivino; il mare ne getta a migliaia sulla spiaggia ogni paio di giorni e a DF la vita inizia a farsi difficile. La protezione civile e i vigili del fuoco lavorano incessantemente per sgombrare i corpi e i cittadini vivono in un incubo che non accenna a terminare. Si trova una soluzione: un muro, una barriera in plexiglass che tenga i cadaveri lontano dalla città e li convogli, attraverso un sistema di tubature e paratoie, direttamente nei capannoni, «i cimiteri di quelli».
E così a DF inizia una vera e propria guerra: da un lato i cittadini, i bravi cittadini lavoratori e dall’altro quelli, i diversi, gli altri – di cui nessuno si pone nemmeno il problema di come siano morti e da dove vengano, se abbiano qualcuno a casa che li aspetti. Persino il medico della cittadina, il dottor Quinto, che si era occupato in un primo momento delle autopsie (senza risolvere il mistero della loro morte), di fronte alla paura del diverso, alla paura di un’invasione perde tutta la sua umanità:
Quando i morti sono così non sono morti: sono materia che occupa spazio. […] Noi non ci occupiamo di quell’ammasso di carne, pelle, tendini, ossa, peli, nervi e liquidi che hanno anche forma di persona.
Carnaio, di Giulio Cavalli, edito da Fandango Libri nel 2018 è un romanzo che apre gli occhi. La trama appare grottesca, addirittura al limite dell’inverosimile: ma man mano che si prosegue con la lettura e ci si addentra nelle dinamiche di DF, con la sua politica gretta e corrotta, il perenne conflitto noi-loro, la perdita di umanità quando assale la paura del diverso, allora qualcosa scatta e ci si rende conto che tutto questo non è poi così lontano dalla realtà. Quella di DF è una vicenda che fa da monito, di certo portata all’estremo ma che suona terribilmente familiare.
Politici che gridano all’invasione, che innalzano muri per tenere fuori gli immigrati – i grandi altri della storia dei nostri giorni – i giornalisti che si battono per i diritti umani ridotti al silenzio, la disperazione e soprattutto il dramma della morte in mare, che passa inosservato: «non sono i nostri morti.»
Carnaio è un libro duro, che punta il dito e accusa d’indifferenza e disumanità, ma lo fa in modo intelligente, quasi sottile. I protagonisti di questo scempio, di questo carnaio appunto, si raccontano, tentano di far valere il loro punto di vista, di dar voce al loro “buonsenso”:
Io sono una cittadina che esprime le proprie opinioni, una di quelli che ha studiato all’università della vita e non ho la pretesa di sapere il giusto o lo sbagliato su tutto, però so bene cosa è giusto o sbagliato per me.
E questo è proprio il punto cruciale, il vero dramma che si consuma a DF: quando ciò che è giusto o sbagliato per il singolo diventa il metro di giudizio universale, quando l’egoismo spoglia l’individuo della sua umanità e lo rende incapace di rendersi conto che quei corpi, quei cadaveri portati dal mare non erano persone. Lo sono ancora.