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Ndrangheta, i tre boss uccisi e il clan di Cirò

Il solito bravissimo Cesare Giuzzi sul Corriere

Il tradimento arriva da chi decide di rompere la più importante regola della ‘ndrangheta: il rispetto per la famiglia. Il pentito si chiama Francesco Farao, 38 anni, figlio del boss ergastolano Giuseppe, capo della cosca. Il pentito racconta ai magistrati la regola che da trent’anni sancisce gli equilibri del clan: «Per togliere la gestione della cassa occorre uccidere il cassiere».

La foto del summit di mafia a Cardano al Campo (Varese) nel 2008 con Marincola Cataldo (a sinistra) e Silvio Farao (a destra) all’epoca ricercati

Ed è una legge che i Farao-Marincola fanno rispettare con il piombo. Prima uccidendo Nicodemo Aloe (1987) poi con l’agguato a Natale Bruno (2004) e infine con l’omicidio di Vincenzo Pirill0, freddato la sera del 5 agosto 2007 nel ristorante «Ekò» di Cirò Marina (Crotone) in una strage nella quale resteranno ferite altre sei persone, compresa una bambina di 11 anni. Aloe, Bruno e Pirillo avevano tutti ereditato la guida del clan dai Farao-Marincola in quel momento ristretti in carcere. E tutti avevano tradito un’altra delle sacre regole della ‘ndrangheta: non rubare. Un comandamento che si traduce nella assoluta necessità per il «reggente» di provvedere al sostentamento dei familiari dei capoclan in carcere. E soprattutto di non dimenticare che il posto sul trono è «pro tempore» e le ricchezze restano dei capibastone. 

Natale Bruno, ad esempio, ha pagato con la vita l’aver riservato al sostentamento di moglie e figli dei Farao-Marincola solo una miseria, l’essersi «fregato i soldi», l’aver «spaparanzato i soldi della ‘ndrangheta»: «Sette-ottocentomila euro che gli venivano periodicamente consegnati dagli affiliati», come scrivono i pm di Catanzaro guidati dal procuratore Nicola Gratteri. Lo stesso errore che commetterà tre anni più tardi Pirillo: «Cenzo è sulla strada che sta sbagliando pure…». I vertici del clan che è un tutt’uno tra Cirò e il Legnanese, rimproverano alla vittima d’aver destinato solo 1.500 euro in più alle spese dei familiari dei detenuti e di aver sperperato un milione e mezzo di euro per un palazzo incentro con i soldi della cosca, oltre all’aver acquistato macchine e camion per la sua azienda. Così i Marincola decidono di «togliergli il maneggio degli affari» perché mentre loro erano in carcere «aveva voluto strafare». A questo occorre poi aggiungere che si diceva che Pirillo volesse fare fuori uno dei fedelissimi dei capoclan, quello Spagnolo Giuseppe, detto ‘u Banditu, che sarà invece uno degli esecutori materiali del suo delitto.

Il pentito Francesco Oliverio, ex capo di Belvedere di Spinello e a lungo imprenditore a Rho, racconterà agli investigatori di Ros e Dia, che a causa delle «inosservanze» di Cenzo Pirillo «la moglie del boss Marincola era stata costretta a lavorare pur di vivere dignitosamente». Un’onta in una famiglia di ’ndrangheta tra le più ricche del Crotonese. Quando l’omicidio sta per maturare, e il piano prende corpo, iniziano a circolare voci «di disprezzo» sul conto di Pirillo, come per costruire una sorta di consenso «popolare» tra gli affiliati: il boss di Legnano Nicodemo Filippelli, ad esempio, racconta che il reggente si sarebbe lamentato di lui perché «non avrebbe mai portato soldi dalla Lombardia». Perillo muore, e un anno dopo cade sotto al piombo anche il nipote Cataldo Aloisio, freddato a Legnano per paura che organizzasse una ritorsione. Ma il clan per rispetto della regola continuerà a «sostenere i familiari dei cassieri assassinati». Da quel momento la faida si ferma. I magistrati lo ricostruiscono grazie a un colloquio in carcere di Peppe Farao: «Il boss spiega la necessità che i propri figli e nipoti si trovassero un lavoro, astenendosi dal commettere azioni violente che in passato gli stessi padri, ora detenuti, avevano commesso per aver rispetto del territorio perché ormai non ne avevano più bisogno».