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Nel “Carnaio” di Giulio Cavalli la paura nei confronti dell’altro diventa profitto

Lo scrittore racconta il dramma dell’emigrazione e di come viene percepita da una società incapace di fare fronte al fenomeno 

(Lilia Ambrosi 25 Agosto 2019, Il Piccolo, fonte)

l’intervista Il primo cadavere arriva nel porto di DF in marzo e si può ancora fare finta di niente, ma quando nel pomeriggio del 4 aprile arriva un’onda fatta di migliaia di corpi tutti uguali, pelle scura, differenze di pochi centimetri e qualche grammo, l’insicurezza cala sul paesino costiero come una cupa cappa sconosciuta. Giulio Cavalli, uomo di teatro e d’inchiesta, finalista al Campiello, ci racconta in “Carnaio” (Fandango,pagg. 218 pagine, Euro 17,00) cosa l’Onda fa esplodere tra gli abitanti di questo piccolo luogo. 

Con una scrittura molto bella, che confronta con l’ironia l’ipocrisia, dipinge le reazioni delle istituzioni e dei singoli e lo fa toccando argomenti di grande attualità. Diciamo solo che DF imparerà a nutrirsi della sua disgrazia affondando nel cinismo fino, a costruire un mare finto pur di chiudersi in una difesa alla paura dal sapore patetico e decisamente spaventoso. 

Questo libro è per lei un atto di ribellione? 

«Mah sì, diciamo che uno dei comandamenti che mi porto dietro in tutto quello che faccio è una frase di Mark Twain che dice che non bisogna avere paura di ciò che non si conosce, ma dobbiamo temere quello che crediamo vero e invece non lo è. “Carnaio” ha una parte iniziale che vuole sbriciolare certi pregiudizi o certe grette e strette visioni che abbiamo per provare ad offrire una visuale inaspettata. Che poi è fondamentalmente il lavoro del giullare sul palco. E che è il lavoro che può svolgere molto dignitosamente la letteratura». 

In questo libro la paura abbonda. 

«Stiamo vivendo una realtà percepita che non è poi legittimata dai fatti e dai numeri e abbiamo preso questa china per cui la nostra sensazione diventa un fatto e viene rivenduta come se fosse l’unica verità possibile. Il che ci espone ad un inquinamento intellettuale molto pericoloso. L’ancoraggio ai fatti che di solito veniva mantenuto dall’informazione o dagli intellettuali, quando questo paese aveva degli intellettuali, è venuto completamente a mancare. Oggi vale qualsiasi affermazione o considerazione non verificata, non verificabile, non poggiata su dati reali e allora improvvisamente tutto vale. È quindi normale che i più fanfaroni diventino dei profeti». 

In “Carnaio” si parla molto di informazione, del confezionare allarmi, mungere lacrime, profanare tutto con assoluta impudicizia. Vi compare però anche Patel, un giornalista inglese che esce dal coro e viene trattato quasi come un monatto, uno da evitare per non farsi intaccare. Lei prova questo isolamento? 

«Si, ma non è tanto una solitudine sociale: ho la fortuna di avere molti lettori, molti spettatori quando sono sul palco, quindi non mi sento non capito o non ascoltato. Ma ho la sensazione netta che in questo paese per entrare nelle stanze dei bottoni, che siano quelle del giornalismo, della cultura o della politica, non contino la qualità e lo spessore delle proprie azioni e dei propri pensieri, ma conti la ricattabilità come garanzia per poter essere accettato in un circolo ristretto.» 

A proposito di qualità e di spessore direi che nel libro l’ignoranza è centrale: un suo personaggio dice “Noi i libri li usiamo per tenere ferme le porte”. 

«Perché la cultura è vissuta come una burocrazia intellettuale, e non è una cosa recente. Il sapere viene trattato come il fardello che appesantisce l’azione delle persone e non quindi come valore, oppure viene trattato con irrisione. È in qualche modo un’inversione antropologica per il paese: un tempo le famiglie di contadini vedevano come massima realizzazione avere figli più “studiati”. Oggi non è più così. Inoltre la semplificazione non è più vista come capacità e talento nel declinare in modo popolare argomenti complessi, ma come banalizzazione consapevole e addirittura premiata. Negli ultimi anni mi sono dedicato molto più alla letteratura che al teatro perché il libro è qualcosa che “sta” e che si può rileggere. In un periodo in cui la volatilità invece è la garanzia di poter dire qualcosa e di poter il giorno dopo dire il contrario, il libro “c’è”». 

Lei crede dunque ancora che la parola funzioni? 

«Assolutamente sì. Credo che nessun mezzo tecnologico, nessun agitatore di popolo, nessun pensiero dominante possa mai sgretolare il potere della parola».