È morta Nadia Toffa, conduttrice della trasmissione televisiva Le Iene che da tempo lottava contro un tumore. Aveva quarant’anni e, come tutti i personaggi pubblici televisivi, la sua morte è stata accompagnata da una montagna di messaggi di cordoglio più o meno sinceri, più o meno veritieri e più o meno furbi. Anche la politica, come al solito, ci si è buttata con foto, tweet e video, come se non ci fosse da buttare via niente da questi fatti di cronaca che permettono comunque di aggiungere un contenuto sui social.
Ma non è questo di cui voglio parlare, no. Mi interessa piuttosto questo modo ormai consolidato di illustrare i malati di tumore come guerrieri: una sottile colpevolizzazione dei malati che se si sono ammalati è perché sono stati distratti, deboli, comunque sbagliati e che divide i guariti dagli sconfitti in una terribile classifica che non ha nessun senso scientifico eppure funziona.
Nadia Toffa ha combattuto la sua malattia pubblicamente, lei che con il pubblico era abituata a parlarci, scrivendone addirittura un libro e arrivando a definire il cancro un dono. «Rivendico il diritto di parlare apertamente della nostra malattia, che non è esibizionismo né un credersi invincibili, anzi: è un diritto a sentirsi umani. Anche fragili, ma forti nel reagire», scriveva.
Perché c’è un’ansia di predicare il modo giusto di combattere la malattia fisica, che è qualcosa che ha a che vedere con il bullismo prepotente di questi tempi, come se ci fossero delle regole scritte e dei comandamenti per fare il malato e per piacere a tutti.
Forse sarebbe il caso di cominciare a parlare delle cose con il loro nome, chiamare il cancro “cancro”, di dire che in un futuro nemmeno troppo lontano i dati ci dicono che il 30% di noi morirà di quello, che la malattia ognuno la affronta emotivamente con i mezzi che ha.
Nadia Toffa ha deciso di vivere la malattia con il sorriso. Non ci sono migliori o peggiori. Ognuno come vuole. Così come ognuno esprime il proprio cordoglio con le parole che sente.
Nadia Toffa non è morta perché ha lottato troppo poco. C’è una malattia da studiare ancora di più, ancora più forte, e una cura da trovare, migliore.
Le malattie fanno parte della vita umana. Ognuno ha il diritto di affrontare il percorso di cura come si sente di farlo.
Buon mercoledì.
L’articolo Il diritto di poter dire, mi sono ammalata proviene da Left.
Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2019/08/14/il-diritto-di-essere-malati-come-si-vuole/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.