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Una città completamente sommersa da cadaveri. Prima decine, poi centinaia e ancora migliaia di corpi, così diversi, così altri, mica come noi. Tanti da essere innumerabili; tali da confondersi in un’unica onda di carne non tutta contenuta nella forma intellegibile di essere umani.
Un mare di morti.
Basta questa premessa per percepire che Carnaio è un testo denso: di immagini, odori, sensazioni, che ti restano fastidiosamente aggrappate alla pelle come salsedine.
La narrazione è un crescendo angosciante, forte e disturbante, che raggiunge il climax quando, tra l’incredulità del lettore, inevitabilmente si fa spazio la profonda, terribile consapevolezza che, la realtà descritta in quelle righe, si fa sempre più vicina a quella dei nostri giorni.
Non a caso DF, il paesino italiano in cui si svolgono i fatti, è senza nome, senza precisa collocazione, ma non senza identità. Perché nei politici che rimandano i problemi della domenica alla settimana successiva, nei poliziotti il cui unico intento investigativo è scongiurare noie e scartoffie da compilare , nel parroco dedito più alla cura dei “corpi” che delle anime, possiamo riconoscere il volto peggiore di qualsivoglia cittadina del nostro Bel Paese.
Nelle parole dei personaggi, le stesse che da tempo infiammano i dibattiti dei politicanti da tastiera, contro quello schieramento nemico non chiaramente identificato di buonisti e professoroni, è impossibile non riconoscere l’imbarbarimento politico e sociale del nostro tempo.
Come non citare a tal proposito le parole di Concita De Gregorio, che definisce Carnaio come “il termometro del tempo che viviamo (…) il paese chiuso, appestato, impenetrabile dove gli abitanti si arricchiscono e blindano il segreto inconfessabile della loro ricchezza mentre sono, nel tripudio del cinismo, destinati all’estinzione”.
Eppure, malgrado la sua natura notoriamente attiva e schierata politicamente, c’è da accreditare a Cavalli il merito di aver saputo relegare le proprie convinzioni personali, lasciando che fosse il racconto a parlare, senza moralismi. Quella tra giusto e sbagliato, è una diatriba nella quale l’autore non entra, delegando al lettore ogni giudizio.
La narrazione quindi è sapientemente affidata a più voci, che rivelano lo svolgimento dei fatti, conseguenti la fortuita sciagura che ha investito il paese, attraverso diversi punti di vista. Sbirciando nell’intimità delle loro vite, si apre ai nostri occhi l’orrore che si sta consumando non solo fuori, ma dentro ciascuno dei protagonisti.
Giovanni, Maria, Antonio, Rita, Luigi, Ciro, Marco, Piermario, sono lo specchio dentro il quale ognuno di noi potrebbe riflettersi, tutte quelle volte che scegliamo di non vedere, fingiamo di non sapere e come un mantra continuiamo a ripeterci che “è normale”, soffocando ogni moto di rivolta dell’etica a favore di ciò che ci fa più comodo credere.
Non ci sono eroi, solo uomini, vittime incoscienti di un rimescolamento avvelenato delle priorità.
Carnaio è quello che potremmo etichettare come un romanzo distopico, che, come definizione di genere vuole, immagina un ipotetico scenario futuro. Un futuro che appare, però, pericolosamente prossimo.
Che i fatti narrati richiamino così verosimilmente alla realtà politica e sociale odierna, non può che scuotere ad una profonda riflessione.
L’intento non è propriamente veicolare un messaggio politico o denunciare l’emergenza del fenomeno migratorio, ma è un memento.
Carnaio racconta l’olocausto delle coscienze, la storia dell’umanità che lentamente soccombe al cinismo, alla paura, alla negazione dell’altro.
La storia ci rammenta come la deumanizzazione sia stata proprio la sottile forma di manipolazione delle masse di cui abilmente si sono avvalsi i più ferocitotalitarismi, attraverso strategie psicologiche e sociali di delegittimazione dell’altro.
Eppure, depersonalizzazione e strumentalizzazione dell’individuo sono espedienti di cui ancora efficacemente si servono le attuali forme di proselitismo politico, in quella esacerbata lotta in “difesa della propria patria e identità”
Difendere, poi, da chi? Quando lasciamo che la paura del diverso si insinui, come un tarlo, nella nostra consuetudine e corroda, poco a poco, ogni forma di giudizio, l’intolleranza che ne trapela finirà ineluttabilmente col riversarsi non più solo contro quelli, ma i nostri, valicando confini che sembravano inimmaginabili.
E’ questo il monito che Carnaio ci lascia nelle parole di Angelica Magnani:
In città si respira una ferocia che sta nelle piccole cose. […] Non è solo questione di quei poveri diavoli che arrivano dal mare. Mi sono ripetuta cento volte che a quelli avremmo anche potuto abituarci. […] Invece questa è la fame, di chi ogni giorno si allarga un centimetro in più lo stomaco e domani avrà bisogno di più carne per sfamarsi. […] Chi non si adatta diventa straniero. Chi è straniero diventa un impiccio, anche se un’ora prima era tua moglie, tuo fratello, tua figlia. […] Il trucco sta nel convincere le persone che ci sia qualcosa di altro da proteggere, e che tutto il resto sia terribilmente poco importante. Che il resto sia la famiglia o la felicità o il rispetto non conta.
Arianna Pane