Se dovessi scegliere un regalo, se domattina svegliando mi trovassi il destino o il suo collega genio della lampada seduto sul tavolo della cucina che mi chiedesse che qualità potessi desiderare per il futuro gli chiederei il coraggio di provare dolore.
Di provare dolore pubblicamente, oscenamente, senza ritegno, nelle cose che faccio e nelle cose che scrivo e pure nel mio lavoro, un dolore finalmente non travestito da sdegno degli sdegnati consumati e nemmeno travestito da pietismo. Dolore nudo, dolore crudo, dolore fitto, dolore appuntito.
Se mi chiedessero di esprimere un desiderio chiederei per favore di non farmi abituare, di non scivolare nell’abitudine di ritenere un danno collaterale un bambino annegato nella giungla di Lesbo e nemmeno un quindicenne morto, quali siano le mie posizioni politiche, qualsiasi siano le colpe dei cadaveri quando erano vivi.
Vorrei anche gridare che è un enorme arretramento di civiltà questo nuovo dovere che ci siamo inventati per cui bisogna essere addolorati ma con garbo, con la giusta distanza, con equilibrio e con tutti quelli altri aggettivi che sostanzialmente servono ad arrogarsi il diritto di fottercene.
Se sentissimo il dolore che c’è intorno come dolore nostro sarebbe un mondo migliore e noi saremmo persone migliori. E allora, pensateci, perché ci vergogniamo di rischiare di essere migliori?
Buon martedì.
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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.