Carnaio è un libro crudo e disturbante, talmente assurdo e disumano da rivelarsi realistico e profetico. DF è una piccola città di mare come tante, tanto comune da non meritarsi nemmeno un nome proprio, esteso, riconoscibile. Potrebbe essere un piccolo borgo qualsiasi del Sud Italia o del Sud del mondo: il mare, la pesca, la vita che scorre tranquilla fra tresche più o meno lecite, commissari annoiati perché non succede nulla, politici sempre pronti a catturare l’attenzione… anche se solo a partire dal lunedì mattina.
Eppure tutto questo, dato da sempre per scontato, rapidamente cambia e il mare da amico fidato diventa presto un nemico, nemico della quiete, della bellezza, della vita che scorre tranquilla seppure coi suoi inevitabili dolori. Prima un corpo, poi quattro, poi ottanta, poi migliaia… un continuo miasma di carne umana che viene dal mare trascina in breve la piccola cittadina nell’orrore, nella paura, nella disperazione. I cadaveri che il mare di DF restituisce sono tutti pressoché uguali, quasi costruiti in serie da un destino sciagurato e balordo.
Sono in altre parole carne e la carne si compra a chilo, è roba da macellai, la carne non è corpo né nome. Infatti, sin dall’inizio e per tutta la durata della narrazione, questi corpi sono “quelli”, un termine che segna una precisa e netta linea di demarcazione rispetto a “questi” che sono gli amici, i vicini, i parenti e quanti, in genere, condividono l’orizzonte di attesa e di esperienza degli abitanti di DF. E in questo banale pronome c’è tutta la violenza delle parole che creano grandi distanze, c’è il gusto per l’omologazione, per lo slogan facile e orecchiabile, per il bianco e nero che non sopportano il confronto, il dibattito, la tolleranza.Ci sono insomma sul piatto le responsabilità della politica, le tattiche facili del populismo, la semplificazione scorrevole dei social.
Emergono, solo a sprazzi, inattesi rigurgiti di moralità, quasi antichi echi di una umanità sepolta, ancestrale che però vengono prontamente messi a tacere ricorrendo al tema abbastanza abusato della sfortuna personale: chi non è stato mai apprezzato dal padre, chi non ha avuto in dono un figlio, chi ha subìto lo smacco di un’infanzia difficile. Insomma ognuno ha il suo facile alibi, ognuno ha il suo debito personale, il suo conto in sospeso con la felicità. Per questo Carnaio è anche il libro della solitudine: la solitudine di chi muore lontano trattato come ‘cosa’, la solitudine di DF che viene comunque abbandonata dalle istituzioni e deve arrangiarsi da sé, la solitudine di chi non segue la massa e viene facilmente etichettato come folle, la solitudine di chi smarrisce i propri punti di riferimento e si fa orientare dagli altri solo per non sentirsi perduto.
Lo stile non è semplicissimo, molto spesso si fa ricorso all’indiretto libero che, tradizionalmente, è lo strumento introdotto dalla letteratura di inchiesta della realtà, quel tipo di letteratura in cui l’autore si eclissa a favore dei singoli punti di vista, per far emergere il relativismo brutale della realtà.
Carnaio potrebbe sembrare un libro sui migranti ma in realtà non lo è, è un libro sull’etica, sul senso del limite, sulla labilità dei confini tra accettabile e inaccettabile. Non è in questione solo la tratta dei migranti, ma l’eticità delle sperimentazioni scientifiche, la sostenibilità delle scelte economiche globali, i modelli dissennati di sfruttamento del pianeta. Quanto si è spostata ad oggi questa linea di demarcazione e, soprattutto, quanto è ancora possibile riequilibrarla?
In altre parole, quanto la realtà non è già diventata distopia?
Recensione di Esterina Guglielmino
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