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Il dramma di Moussa: pestato in strada e incarcerato, si toglie la vita a 23 anni

Innanzitutto diamogli un nome, perché ieri per quasi tutto il giorno il ventitreenne proveniente dalla Guinea Moussa Balde che si è suicidato domenica 23 maggio nel Centro permanenza rimpatri di Torino è stato solo un “immigrato”, per alcuni “un clandestino”, un “irregolare”, comunque “uno straniero” e come cappello di ogni cronaca della sua vicenda si leggeva di quanto fosse depresso, malato, dedito all’alcol e un’altra decina di altre caratteristiche che tornavano utile a cannibalizzarlo, a trasformarlo in “altro” così quel morto suicida poteva essere facilmente disinnescato, interessarci solo di sguincio, una notizia del solito straniero fuori di testa da mettere in pagina.

Invece la storia di Balde Moussa va raccontata per intero perché c’è dentro tutto il fallimento di questo Paese (e questa Europa) che non solo non tende la mano ai morituri ma non si prende nemmeno la briga di salvare i salvabili, che getta nel sacco dell’umido tutti i periferici che non hanno nemmeno una porta a cui bussare per diventare visibili.
Il 9 maggio Balde Moussa ha fatto capolino nei giornali per essere stato massacrato di botte nei pressi del Carrefour di Ventimiglia. Tranquilli, anche in quel caso è andato tutto come previsto: nonostante girasse un filmato chiarissimo in cui si vedeva il bastone sulla carne, si sentivano le urla terrorizzate dalle finestre, si scorgeva una donna chiedere aiuto urlando “lo ammazzano” mentre tre baldi uomini si accanivano su di lui anche in quel caso la notizia è stata trattata come si tratta un pestaggio di uno straniero: “era ubriaco”, si sono affrettati a scrivere tutti, “aveva litigato qualche minuto prima con uno dei tre”. Come se da qualche parte esistesse una legge (anche morale) che consenta la lapidazione come legittima difesa.

Le forze dell’ordine, rispettando questo infame ordine delle cose che ha preso piede dalle nostre parti, si sono premurati di verificare l’irregolarità del ragazzo nel territorio italiano e hanno raccontato il pestaggio estraendo dal cilindro il presunto movente del presunto furto del presunto telefono di uno dei tre aggressori. Capito? Allora tutto a posto, allora la violenza criminale condita con un po’ di razzismo è passata in secondo piano. Lui, Balde Moussa, raccontava ai compagni di cella del Cpr di Torino (perché noi abbiamo carceri per persone non condannate sul nostro territorio, un abominio giuridico che continuiamo a fingere di non vedere) che in realtà era tutto un tentativo di zittirlo e invisibilizzarlo. Ora vai a sapere la verità, tanto è morto e si è risolto il problema. Il comunicato ufficiale dice che Balde Moussa sia stato trovato morto impiccato con delle lenzuola mentre si trovava in isolamento nella sua cella. Nel Cpr era stato con alcuni compagni di cella e poi (senza una motivazione specifica) in isolamento per non meglio precisati “motivi sanitari”. Qualcuno parla di una depressione: che per i depressi sia meglio star soli deve essere una nuova scintillante teoria che sarebbe curioso farsi raccontare.

Di certo alcuni testimoni raccontano che gli erano state negate richieste di aiuto e di soccorso per i dolori e che, nonostante la prognosi rilasciata dai medici dell’ospedale, quelle botte erano state ignorate dagli operatori, dalle guardie e dallo staff medico del centro di detenzione. Non è difficile crederlo: al di là del caso specifico che nei Cpr non vengano rispettati i più basilari diritti è una non notizia che ogni volta coglie impreparati solo coloro che fingono (male) di non sapere. Il girone infernale dei Cpr è fatto di militarizzazione estrema, di mancanza delle più basiche regole di igiene, di nessuna comunicazione ai detenuti (che non conoscono nemmeno i propri diritti), di udienze su fascicoli che spesso non sono mai nemmeno stati letti e, poiché il sistema dei rimpatri è completamente farlocca, di “liberazioni” con inviti a tornarsene al proprio Paese autonomamente.

Balde Moussa ha affrontato il viaggio per arrivare in Europa, non riusciva a passare il confine a Ventimiglia (non voleva rimanere in Italia, voleva andare verso nord), è stato pestato ed è finito in un carcere dopo essere stato vittima di un reato. Tecnicamente si è suicidato, certo, ma siamo sicuri di non sapere chi siano i mandanti e i fiancheggiatori?

L’articolo Il dramma di Moussa: pestato in strada e incarcerato, si toglie la vita a 23 anni proviene da Il Riformista.

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