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Capitati d’azienda

Almeno una volta le lezioni (non che fossero meno insopportabili e paternalistiche, eh) le davano i capitani d’industria, quelli che si erano “fatti da soli”, quelli che avevano il jolly del raccontare che venivano dal niente, quelli che si commuovevano quando raccontavano la fatica. Oggi invece siamo nell’epoca del moralismo vuoto dei “capitati d’azienda”, figli di cotanti padri che hanno dovuto subire l’enorme ingiustizia di sobbarcarsi l’impero di famiglia ma usano lo stesso stile retorico, misuratamente confezionati nel loro completo senza un’ombra di sgualcio mentre insegnano ai giovani disoccupati come affrontare il mondo.

Il 43,7 per cento delle prime mille aziende italiane per fatturato sono di natura familiare

«Ragazzi rifiutate i sussidi e mettetevi in gioco», ha detto ieri Guido Barilla, di professione figlio di suo padre, uno dei mestieri più diffusi nell’imprenditoria italiana se è vero che sono “familiari” il 69,1 per cento delle piccole imprese e il 61,6 per cento di quelle medio grandi secondo i dati dell’osservatorio AUB, al 26 gennaio del 2021. Del resto dal 2010 proprio le aziende familiari hanno avuto un tasso di crescita superiore rispetto a quello di altri tipi di azienda. Sempre per avere un po’ di proporzioni: delle prime 1000 imprese per fatturato in Italia ben il 43,7 per cento sono di natura familiare mentre in Francia sono solo il 28,3 per cento, il 39,5 per cento in Germania e il 35,4 per cento in Spagna. Se invece guardiamo le prime 1000 aziende quotate l’Italia è l’unico Paese tra i quattro (con Francia, Germania e Spagna) ad avere una maggioranza di imprese familiari rispetto a quelle non familiari: il 52,9 per cento dei consiglieri nei consigli di amministrazione delle imprese famigliari sono persone appartenenti alla stessa famiglia e di questi solo il 10 per cento sono donne. Per rendere l’idea, Assolombarda organizza ciclicamente un corso che si intitola “Figli del capo” rivolto a quelli che sono «figli di imprenditori e imparano il mestiere dai genitori prima di assumersi responsabilità all’interno dell’azienda familiare, ma spesso non si parlano tra loro», che «non hanno modo di capire come altri coetanei stanno imparando le stesse cose, non conoscono le altre realtà e non si confrontano». Per loro ( lo scrive Assolombarda, badate bene) «l’azienda di famiglia rappresenta in tanti casi l’unica occasione per parlare di impresa».

Nascere privilegiati non è una colpa, lo è non averne contezza

Benissimo. Capite che in un quadro del genere, senza volere cadere nel rischio facile di demonizzare a prescindere le imprese familiari, risulta piuttosto stonato subire lezioni di meritocrazia, di welfare o di approccio al mondo del lavoro da chi si è ritrovato in una situazione di assoluto privilegio. Il «sussidio» di Guido Barilla evidentemente è l’azienda del padre e se lui avesse dovuto seguire spassionatamente lo stesso consiglio in cui si è lanciato oggi dovrebbe essere, che so, a confrontarsi in un altro settore qualsiasi, in un’azienda qualunque che non abbia sopra la scrivania il suo cognome come logo. Come scriveva ieri la scrittrice Letizia Pezzali «se hai un privilegio devi avere coscienza del privilegio. Se hai una certa storia, potrai dire certe cose e non altre. È un problema morale di grandissima importanza. Sapere chi sei e cosa puoi permetterti di dire». Nascere privilegiati non è una colpa ma non averne contezza è immorale.

Un nuovo mattone della narrazione tossica contro i giovani

A meno che, a volere pensare male, questa frase non sia banalmente l’ennesimo mattone di una narrazione tossica che prolifera in questo periodo, la solita ostica resistenza di chi si concentra sulla propria auto preservazione accusando gli altri di indolenza per non doversi prendere la responsabilità di «rimuovere gli ostacoli» come dice la Costituzione. Nascono da qui i generi letterari dei rider felici e ricchi di qualche mese fa (ve li ricordate? Poi si è scoperto che invece erano semplicemente l’ultimo modello di schiavi), nascono cosi gli sfaticati precettori del reddito di cittadinanza che non accettano di andare a lavorare per 600 euro sputati (e spesso in nero) come novelli partigiani del fatturato italico, nascono cosi i discorsi vuoti sulla “fuga dei cervelli” con i giovani che decidono di essere pagati il giusto all’estero che vengono trattati da disertori. Ieri qualcuno ha avuto perfino il coraggio di dirci che anche i problemi con il vaccino AstraZeneca soni dovuti all’irresponsabilità dei giovani che vogliono farsi vaccinare «per andare in discoteca». Siamo in questo dirupo qui, al limite della perversione. Per questo sembra perfino sensato intervistare Guido Barilla per parlarci di occasioni e di di disoccupazione. Un Paese di capitati d’azienda (e di capitalisti con i capitali degli altri) elevati a maestri di vita.

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