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I genufessi

Il capolavoro dell’ufficio alle complicazioni dalle parti della Nazionale italiana è qualcosa che andrebbe studiato con cura, una perfetta fotografia di un Paese in cui il sogno predominante della classe dirigente sarebbe quello di non decidere, di lasciare scorrere, di arrogarsi il diritto di non scegliere.

Se persino inginocchiarsi diventa «divisivo»

È il solito annoso problema: la gente pensa, pensano i tifosi che mica si limitano a tifare, pensano i giornalisti che mica si limitano ad aggiornare il tabellino dei gol, pensano i telespettatori che mica si limitano a teleguardare. Pensano e parlano, discutono tra loro, esprimono giudizi, coltivano opinioni. Che gran rottura la complessità. Ci aveva visto giusto la Gazzetta dello Sport all’inizio del campionato Europeo di calcio quando fiutando l’aria estrasse dal cilindro il solito editoriale che è la tromba degli impauriti: “Inginocchiarsi è un gesto divisivo” aveva vergato la brillante penna del quotidiano sportivo. Il “divisivo” è l’ennesimo trucco linguistico malriuscito dei conservatori fuori da questo tempo: dovrebbero scrivere: «No, per favore, non costringeteci a prendere una posizione», ma rovesciano il concetto sulla ferocia del dover scegliere. I pavidi sono sempre abilissimi ad accusare le scelte.

Quindi che accade? Accade che un semplice gesto partito dagli Usa, quell’inginocchiarsi che è del movimento antirazzista Black Lives Matter metta terribilmente in imbarazzo la compita liturgia dell’Europa del pallone, le federazioni, le squadre e i partiti politici. Prima osservazione d’acchito: allora funziona, evviva. Funziona perché tocca un nervo scoperto, accende il dibattito e soprattutto porta in superficie quelli che sotto le mentite spoglie dell’essere anti-antirazzisti non riescono proprio a solidarizzare con la morte di George Floyd, cominciano a strepitare, si incartano da azzeccagarbugli sull’estetica del gesto per non essere costretti a esporsi sul significato, non ce la fanno proprio a mimetizzarsi. Come veleno per i topi un semplice ginocchio appoggiato per terra elettrifica gli animi. Funziona, quindi, bene così.

Chi dice “fuori la politica” è lo stesso che politicizza la Nutella

«Fuori la politica dal calcio» ripetono ossessivi e ossessionati. Fatemi capire: quindi essere contro il razzismo significa appartenere a una parte politica? C’è il partito dei razzisti? Buono a sapersi. E allora tutti quegli striscioni contro il razzismo della Fifa prima delle partite internazionali? Gli smaltati spot antirazzisti? I cortei di bambini prima del fischio d’inizio? Quelli non disturbano evidentemente perché vengono vissuti come innocue parate, ecco perché l’inginocchiarsi funziona. E poi, questa tiritera del “fuori la politica” davvero può funzionare ancora? Quelli che dicono “fuori la politica” non sono poi gli stessi che politicizzano qualsiasi notizia di cronaca nera locale? Non sono gli stessi che politicizzano la frase estrapolata di qualche comico decadente se torna utile per la propaganda? Non sono gli stessi che hanno trasformato in politica una crema al cioccolato spalmabile e perfino le sue nocciole? Non sono quelli che sventolano i loro figli sui loro social per la propaganda? Sì, sono gli stessi, proprio loro, storditi ogni volta che devono fare i conti con la complessità.

inginocchiarsi in campo: la polemica senza senso
Leonardo Bonucci (Getty Images).

Più i gesti sono disturbanti più funzionano

«Inginocchiarsi non serve a niente», dicono. Anche questo è un metodo che si applica ogni volta: il benaltrismo che irride un gesto simbolico per minimizzare il senso politico. Badate bene, osservate: sono gli stessi che twittano per ogni lutto (e a che serve il vostro tweet?), che misurano il patriottismo in base ai decibel, che mettono la bandierina sopra a tutto, che hanno un’erezione ogni volta che incrociano una divisa. A che serve allora durante una partita di calcio il lutto al braccio? E il minuto di silenzio? Occhio che ci si mette pochissimo a dimostrare che tutto serva a niente. La realtà è che i gesti simbolici funzionano eccome e più sono disturbanti e più ottengono il loro effetto. «Il razzismo non si combatte inginocchiandosi», dicono. Verissimo. E infatti nessuno si sogna di combattere il razzismo inginocchiandosi ma distinguersi dai razzisti ripetendo un gesto che indica un’appartenenza è un primo passo. A proposito, provate a chiedergli come abbiano intenzione di combattere il razzismo: balbettano, arrossiscono e ricominciano da capo rivendicando il diritto di non occuparsene, in un ciclo continuo. Poi ci sono quelli del «e allora?». E allora i gialli? I viola? I blu? Gli altri oppressi? Questi sono meravigliosi: c’è sempre un buon motivo per restare immobili. Ti dicono: la sofferenza del mondo è troppa. E quindi? Quindi stai immobile, fingiti morto, vedrai che passerà. La complessità del mondo per loro è una scusa credibile per essere abietti.

La figuretta dei calciatori italiani

Infine ci sono i calciatori italiani, italiani nel midollo anche in questa situazione. C’è l’ottima idea di usare per dare spiegazioni ai giornalisti quel Leonardo Bonucci che si distinse quando il suo compagno Moise Keane venne chiamato ripetutamente “scimmia” durante una partita a Cagliari spiegandoci che avesse sbagliato anche lui (come si permette, del resto, di essere nero?). Ci spiegano che sono «tutti antirazzisti ma» con quella banalità del ma che è già un manifesto di vigliaccheria. Splendida la trovata di inginocchiarsi «se lo farà anche la squadra avversaria, per rispetto della sensibilità degli avversari». Capito? Mica la sensibilità dei morti perché neri, no, degli avversari. Insomma, oltre che antirazzisti sono sensibili. L’allenatore Mancini dice che avrebbe preferito non doverne parlare. Quando si dice il carisma. Sullo sfondo le solite: Salvini che ci butta dentro i radical chic e Saviano (come i bambini interrogati in geografia che impreparati ci mettono dentro il terziario e il turismo) e i patriotti piccoli piccoli seppur in piedi. Ultima nota: ieri l’ex agente Derek Chauvin è stato condannato a 22 anni per la morte di George Floyd. Vedi com’è complicata e faticosa la vita?

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