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Due consigli prima di parlare di Ddl Zan o di pestaggi nelle carceri

Qualcuno trovi presto il visionario coraggio di costituire un intergruppo parlamentare dell’empatia. Lo faccia in Parlamento e se possibile lo faccia anche nelle associazioni di categoria: la confempatia, l’arciempatia, il dopolavoro empatico e, se possibile, anche una corrente empatia in ogni partito. Fallito il tentativo di instillare solidarietà, schiacciato dalla clava del sospetto reato di buonismo, non resta che innescare un enorme movimento pedagogico che spinga più persone possibili a provare l’ebrezza di “mettersi nei panni degli altri”. La usavano certi parroci e certi nonni mentre oggi suona come una sconcezza fluida o come un pericolo di contagio.

Signori, la rivoluzione solidale è persa

Guardarsi in faccia e dirsi: signori, la rivoluzione solidale l’è persa, ci abbiamo provato ma non abbiamo partorito niente di più di qualche circolo dei buoni e bravi. La solidarietà è un sentimento inaccessibile al pari di un ideale e si sa che questi non sono tempi in cui si può toccare il cielo con un dito ché siamo nati tutti con un nodo in gola. Però se una gran fetta di italiani provasse l’ebrezza sciagurata (va benissimo anche un’informatizzata realtà virtuale che irrompa come uno spot) di essere un carcerato che è stato condannato dalla legge e che poi si ritrova quella stessa legge con il manganello in mano e i denti gocciolanti a schiaffare lividi non sarebbe possibile che non si senta l’odore acre dell’ingiustizia. Non sarebbe nemmeno possibile concedere il lusso a qualche politicante di mischiare tutto con la propaganda. Si potrebbe essere in disaccordo, certo ci mancherebbe, ma parlarne e scriverne con il bruciore di uno sfregio tra le costole riporterebbe la discussione nell’alveo umano, contenuta nella dignità.

Il lusso immorale di travestire la povertà da indolenza

Se per cinque secondi (il tempo di uno spot breve durante il recupero della palla in fallo laterale) arrivasse il burrone di non sapere come tirare fino a fine mese, cosa mettere nelle borse che non si possono permettere nemmeno la peggiore pasta del più sporco discount della più periferica periferia, si potrebbe discutere di poveri e di povertà senza concedersi il lusso immorale di travestirla da indolenza, di chiamare un vasetto di sugo assistenzialismo e di ipotizzare la creazione di un cassonetto nazionale dei falliti. Sono sicuro che se si sentisse l’esigenza di andare via, andare da qualsiasi parte, per tentare di sopravvivere, perfino scegliere una morte incerta piuttosto che una morte certa, allora potremmo scornarci all’infinito su come governare le migrazioni (che sono comunque uno dei fenomeni che più si autogoverna essendo naturale nella storia) ma sentiremmo l’urgenza del salvataggio, almeno quello, scornandoci poi serenamente dal secondo successivo all’approdo.

La corte di farisei omofobi che rivittimizzano le vittime

Se capitasse il caso, breve ma intenso, di venire identificati con un solo lembo di tutto il perimetro del nostro corpo e di quello che siamo, se vedessimo un mondo in cui il prerequisito essenziale è quello di essere eterosessuale per stare tra “normali” intenti a disinfettare come scarti tutti gli altri potremmo discutere del ddl Zan ragionando (anche spigolosamente) sulle formulazioni di legge ma non permetteremmo ai farisei omofobi di rivittimizzare le vittime. Pensate agli occhi diversi con cui si potrebbe discutere di tutele, di genitorialità, di garanzie di reddito e della casa, di salute e cura. Salterebbero all’occhio, distinguendosi come macchie sotto il luminol, gli avvelenatori di pozzi mentre scorgono dittature sanitarie dappertutto, incroceremmo ogni persona con la consapevolezza che, anche se non si vede, sta combattendo una sua battaglia personale che merita rispetto. Ci diremmo che è faticoso, eccome, vivere e sopravvivere.

I diritti sono sempre quelli degli altri

I diritti sono sempre quelli degli altri scriveva Pasolini perché chi reclama diritti è sempre una minoranza schiacciata dal proprio poco peso. Cadrebbe anche questa ghigliottinante tiritera del “ci sono cose più importanti” poiché ci sarebbe la consapevolezza che l’importante è già tutelato dal proprio ingombro. Perché mentre ci sediamo su uno status quo che ci appare garantito dovremmo sentire il burrone delle vite che per un accidente qualsiasi possono precipitosamente rotolare e quando ormai si è già tra le frasche possiamo urlare, urlare, urlare ma lì sopra, se non sono educati a sentire, non ci sente nessuno.

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