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La distopia del reddito di cittadinanza

Per Meloni la misura di contrasto alla povertà è come “metadone di Stato”. Roba da brividi se dalle nostre parti ci fosse ancora un minimo di senso della decenza e della misura

Ci risiamo, siamo sempre qui. Anche durante l’annuale Forum Ambrosetti abbiamo assistito agli strali contro il reddito di cittadinanza, ovviamente sempre basandosi su una visione pervertita della realtà e ovviamente fottendosene bellamente dei dati. Sia chiaro: il reddito di cittadinanza è una legge che come tutte le leggi è migliorabile se non addirittura sostituibile con misure più efficaci. Il punto sostanziale però rimane sempre lo stesso: gli imprenditori che sono contro i sussidi ai poveri vedono come unica soluzione quella di deviare i sussidi ai ricchi (e loro, chiaro, si credono i ricchi) quindi sostanzialmente vorrebbero intascarsi i soldi dei poveri con la promessa di ridistribuirli. Sì, ciao. 

Il colpo grosso l’ha lanciato Giorgia Meloni (che sarebbe l’autentico Salvini di cui preoccuparsi, più di Salvini, ma tardiamo a rendercene conto) con il suo paragone tra reddito di cittadinanza e metadone, roba da brividi se dalle nostre parti ci fosse ancora un minimo di senso della decenza e della misura. Ma del resto vince chi urla l’urlo più urlato e Meloni sa bene come conquistarsi qualche titolo che mandi in sollucchero i suoi tifosi. Poi è arrivato il presidente di Brembo che ci ha deliziato dicendo “certo che credo alla gente che preferisce prendere il reddito e stare sul divano piuttosto di lavorare” raccontando di avere incontrato agricoltori (in vacanza, eh) che si lamentano di non trovare chi raccoglie “pomodori e angurie a causa del reddito”. Poi, ovviamente, ci ha detto che “non si trovano lavoratori stagionali”, riprendendo un refrain che ormai funziona tantissimo. Del resto già il 14 maggio il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca (uno che ogni volta che apre la bocca accende l’incresciosa domanda del perché non stia in una parte politica più consona al suo bullismo politico) disse “Alcune attività non apriranno perché non si trovano più camerieri. Non si trova personale stagionale: è uno dei risultati paradossali dell’introduzione del reddito di cittadinanza“.

Peccato che l’affermazione sia completamente falsa come certificano i dati amministrativi dell’Inps che raccontano tutt’altra realtà: a maggio sono stati attivati la bellezza di 142.272 rapporti di lavoro stagionali. Quasi il doppio rispetto al 2017 e 50mila in più sia rispetto al 2018 – prima dell’introduzione del reddito di cittadinanza – sia rispetto al 2019. Una ricerca d’archivio conferma che si tratta di un record da almeno otto anni a questa parte (le serie arrivano fino al 2014). E di solito il boom di stagionali si registra a giugno, all’inizio della stagione estiva, mentre quest’anno è arrivato addirittura in anticipo. Il saldo annualizzato, cioè la variazione tendenziale delle posizioni di lavoro negli ultimi 12 mesi, ha fatto registrare una crescita pari a +560mila, frutto soprattutto di un saldo positivo dei contratti stabili (+184.000), ma anche di quelli a tempo determinato (+169.000), in somministrazione (+110.000), stagionali (+91.000) e intermittenti (+8mila).

Del resto Riccardo Illy, con evidente onestà intellettuale, dice che “i dati sono chiari, l’incidenza del reddito sulla carenza di manodopera è praticamente nulla” e l’imprenditrice Luisa Todini (che opera nel settore alberghiero) riconosce che se sommiamo “la disponibilità del reddito di cittadinanza all’interesse di molti imprenditori di pagare i lavoratori in nero, la miscela diventa esplosiva”. Nessuno invece ha la santa pazienza di chiedere ai nostri imprenditori come sia successo che negli ultimi 10 anni siamo passati da 400 contratti ai 980 di oggi, pseudocontratti che sono stati utili per parcellizzare i diritti, sostanzialmente annacquandoli. 

Come ricorda Pasquale Angius “Nel 123 a.C., nell’antica Roma, il tribuno della plebe Gaio Sempronio Gracco fece approvare una legge che obbligava lo Stato a fornire a un prezzo fisso, molto basso, di sei assi e un terzo, a ogni famiglia grano sufficiente per produrre ogni mese 45,3 chili di pane, all’incirca un chilo e mezzo al giorno”. Solo per dire come le misure di sostegno al reddito esistano da sempre nonostante qualcuno finga di non saperlo. Sarebbe anche utile ricordare che entro il primo anno e mezzo dall’introduzione del reddito di cittadinanza uno su quattro dei beneficiari aveva trovato un lavoro, il 65% a tempo determinato. Lo ripetiamo ancora una volta: che le misure di contrasto alla povertà siano cosa diversa dalle politiche attive per il lavoro lo sanno anche i sassi ma che le une debbano pagare le altre è qualcosa che grida vendetta. Anzi si potrebbe anche notare che poca attenzione viene data al fatto che i limiti per i cittadini non italiani siano fin troppo stringenti (e qui sento già le unghie dei “non sono razzista ma” che graffiano) tenendo conto che un terzo delle famiglie di stranieri residenti in Italia vivono in povertà e, tra l’altro, in molte di quelle famiglie ci sono dei minori e che la soglia dei 10 anni di residenza in Italia per accedere al reddito è stato un gradito regalo a Salvini. 

Sempre come ricorda Pasquale Angius “secondo una recente ricerca il 55,2% delle persone che nel 2019 si sono rivolte alla Caritas per ottenere pasti e prodotti alimentari gratuiti avevano percepito il reddito di cittadinanza. Questo dato ci dice in sostanza che chi percepisce quel beneficio appartiene a categorie sociali vulnerabili, e spesso le poche centinaia di euro del reddito non sono sufficienti, soprattutto per le famiglie più numerose”. 

Questa è la realtà. È benvenuta qualsiasi opinione, anche contraria, al reddito di cittadinanza ma per favore rimaniamo nella realtà, non insceniamo una dolorosa distopia. 

Buon martedì. 

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.