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Il sogno infranto di Benjamin si chiamava Europa, la sua vita spezzata a 17 anni sull’asfalto di Tripoli

Si chiamava Benjamin e aveva 17 anni. A inizio mese anche lui era stato arrestato dalle autorità libiche in quell’enorme rastrellamento condotto dal governo, ufficialmente per motivi di sicurezza e di lotta al narcotraffico, che ha portato nei centri di detenzione ufficiali oltre 5.000 persone rinchiuse nelle solite condizioni che tutto il mondo conosce. Viene perfino difficile riscriverlo di nuovo, eppure i migranti intrappolati in Libia continuano a chiederlo: continuate a scrivere, scrivono, voi giornalisti continuate a raccontare come siamo noi qui, prima o poi qualcosa si muoverà.

I centri di detenzione libici sono stati mostrati al mondo. Ci sono le immagini, ci sono i video, ci sono le testimonianze. Finire in un centro di detenzione controllato dallo Stato significa smettere di essere uomo diventare topo, dormire in mezzo agli escrementi se si riesce ad avere la fortuna di ritagliarsi lo spazio necessario, significa sfiorare la morte per l’inedia che assale per la troppa fame e per la troppa sete, significa essere carne da violentare se si è donna, carne da fare urlare se si è uomo, perché le urla le possano sentire i famigliari che devono spedire altri soldi. Benjamin a 17 anni aveva passato l’orrore ed era stato rilasciato alcuni giorni fa. I rastrellamenti del governo hanno riempito i centri ufficiali che cominciavano a scoppiare e gli occhi, seppur tiepidi, della comunità internazionale hanno fatto il resto. La liberazione in Libia è un concetto strano, anche la libertà non ha lo stesso suono come in molti altri Paesi del mondo: essere liberi a Tripoli significa avere l’opportunità di affrontare altre privazioni fisiche e economiche per tentare la traversata. Come possa andare a finire nel Mediterraneo lo sanno tutti, lo sanno i profughi soprattutto ora che la bella stagione è finita e il mare comincia ad ingrossarsi più spesso e lo sappiamo noi che ogni giorno vediamo sfilare i numeri, anche se abbiamo imparato a diventarne impermeabili.

Benjamin uscito dal centro di detenzione ha raggiunto gli altri, sono migliaia, che a Tripoli dormono per strada poco distanti dalla sede dell’UNHCR che però ha interrotto la propria attività perché “impossibilitata a proseguire”. I migranti appesi al marciapiede sono la fotografia perfetta di cosa siano la libertà e i diritti di questa gente secondo il governo libico, ma anche per la comunità internazionale che li osserva da lontano: hanno il diritto di dormire per strada, di farsi erodere dalla pioggia, di mendicare. Sono liberi di essere perseguitati. Ne scrivevamo su queste pagine pochi giorni fa: nemmeno il Papa e la Chiesa che rappresenta, quella che molti invocano quando devono legittimare le proprie battaglie politiche, sono riusciti a smuovere niente. Banmat Barkhat, per tutti Benjamin, mentre caracollava insieme alle altre 3.000 persone accampate e sospese in un limbo di umanità e di diritto è stato investito da un’auto di notte. La sua felpa a quadrettoni rossi e neri è rimasta sull’asfalto come un sacco di iuta, Benjamin era molle come uno degli orologi di Dalì e i compagni di sventura cercavano di soccorrerlo scuotendolo per avere un segno di vita. Non ce l’ha fatta. Chi l’ha investito se n’è andato senza nemmeno un fremito di rimorso. Ancora ieri i migranti accampati ne piangevano la perdita e chiedevano all’Europa di aprire gli occhi, di smettere di finanziare tutto quell’orrore.

I contrabbandieri con i migranti rimasti senza casa e all’addiaccio sotto teli di plastica hanno potuto alzare i prezzi: ora servono almeno 1.500/2.000 dollari per tentare di raggiungere l’Italia o Malta attraverso il Mar Mediterraneo. «Molti di noi cercano di attraversare via mare perché abbiamo perso fiducia nell’UNHCR per trovare vie legali per uscire». Qualcuno racconta di avere amici che sono riusciti a sfuggire ai rastrellamenti ma portano ancora addosso i segni delle fruste. Molti non si sa nemmeno dove siano finiti. Di sicuro alcuni sono morti che non rientreranno mai in nessun elenco ufficiale e gli altri che sono riusciti a nascondersi non escono perché temono di essere rapiti. Del resto i rifugiati sano bene che quest’anno solo 345 persone hanno lasciato la Libia grazie ai corridoi umanitari. Nel 2020 erano stati 811. Negli ultimi mesi la Libia impedisce i voli di evacuazioni per vulnerabili e richiedenti asilo. L’UNHCR avrebbe ricevuto una “conferma verbale” che i voli potrebbero riprendere a breve ma non c’è nulla di ufficiale.

Il portavoce dell’UNHCR Tarik Argaz ha detto: «I nostri team stanno già preparando tutta la logistica necessaria per riprendere le evacuazioni il prima possibile. Tuttavia, ciò potrebbe richiedere del tempo poiché alcuni di quelli prioritari per i voli sono attualmente in detenzione, a causa delle operazioni di sicurezza. Altri non possono essere raggiunti poiché le loro case sono state demolite, e gli sono stati portati via gli effetti personali e i telefoni». Ad ottobre più di 2.800 persone si sono messe in salvo in Europa. 1016 sono state salvate dalla flotta civile e più di 1.800 sono arrivate in autonomia (ovvero pagando a caro prezzo gli sfruttatori) a Lampedusa. Accanto a questi numeri ci sono, solo nel mese di ottobre, più di 1.700 persone respinte illegalmente in Libia dalla cosiddetta Guardia costiera libica. Nonostante i tribunali e le organizzazioni umanitarie del mondo continuino a dire che riportare i migranti in Libia sia contro qualsiasi legge e qualsiasi accordo sui diritti umanitari l’opera di respingimento in mezzo al Mediterraneo della Guardia costiera libica (pagata e addestrata direttamente dell’Italia) continua incessantemente.

Quanto possono valere le leggi italiane e internazionali in un Paese in cui ormai non vige nemmeno il principio minimo di umanità. Una volta rientrati in Libia i profughi pescati in mezzo al mare ricominciano daccapo: vengono rinchiusi di nuovo nei centri di detenzione, ancora violenze, altri soldi da pagare poi se va bene ci si riprova di nuovo. A Tripoli tra gli accampati sui marciapiedi c’è qualcuno che racconta di avere ripetuto il ciclo dieci volte. Poi ci sono i morti, diciamo i morti che si possono contare perché muoiono sotto gli occhi di qualche testimone o perché galleggiano sull’acqua e vengono fotografati: a ottobre sono almeno 84 persone decedute nel Mediterraneo centrale. Ma contare i morti è difficile: avere occhi per capire la realtà significa riuscire a superare le ostilità di chi ritiene le Ong e le loro navi addirittura la vera radice del male. Il Mediterraneo ormai è un enorme cimitero liquido in cui anche essere testimoni è un’impresa titanica. Del resto l’Europa è la finanziatrice di tutto questo orrore. Com’è pensabile che voglia risolverlo?

L’articolo Il sogno infranto di Benjamin si chiamava Europa, la sua vita spezzata a 17 anni sull’asfalto di Tripoli proviene da Il Riformista.

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