In Italia più di 2 milioni di cittadini sono in stato di povertà, lo dicono chiaramente i numeri e la pandemia (che non sembra finire presto) sta continuando a pesare sui lavoratori. 25 milioni di lavoratori e pensionati sfiorano o raggiungono a malapena i 25mila euro di reddito. Una nota curiosa: quei 25 milioni sarebbero il primo partito d’Italia, rappresenterebbero il 68% degli elettori votanti alle politiche del 2018.
Fuori dal coro unanime che osanna il governo dei migliori e che applaude ogni nuovo provvedimento c’è un’ampia fetta di italiani che si domanda perché il taglio delle tasse di 8 miliardi voluto da Draghi (di cui 7 sull’Irpef e uno sull’Irap) debba favorire chi guadagna più di 60/70mila euro all’anno dimenticandosi completamente quelli che guadagnano 1.000 euro al mese. Davide Maria De Luca, giornalista di Domani, sul suo profilo Twitter l’ha detto semplice semplice: «Ho un buono stipendio, – scrive De Luca – un ottimo contratto e una casa di proprietà. Economicamente la pandemia non l’ho praticamente sentita. Ma il governo Draghi, nella sua saggezza, ha ritenuto giusto che fossi io, e quelli come me, a ricevere il taglio di tasse più corposo di questa riforma». È solo una delle tante voci che stanno intervenendo in questi giorni: gente che non ritiene equo ottenere vantaggi fiscali nella propria posizione. Filippo Barbera – citato anche dal deputato Nicola Fratoianni – professore di sociologia dei processi economici e del lavoro all’università di Torino, scrive: «Gent.mo Presidente Draghi, ho 51 anni, sono Professore ordinario, pago un mutuo più che sostenibile. Ho una casa in città e una in campagna. Mi piace quello che faccio, guadagno bene senza essere straricco. MA PERCHÈ MI DEVE ABBASSARE LE TASSE?».
Della stessa idea sono anche i sindacati che qualche giorno fa hanno incontrato il ministro dell’Economia Daniele Franco: «ma non ha senso che chi guadagna 100 mila euro ha lo stesso vantaggio di chi ne prende 20 mila: il contrario della progressività», ha dichiarato Landini della CGIL. Sbarra (CISL) dice che «i redditi bassi non sono priorità per questo governo» e Bombardieri (UIL) ha raccontato che «il ministro si è presentato senza un pezzo di carta e con un’intesa blindata, ma quelle sono scelte sbagliate».
Il percorso è sempre quello che piace soprattuto a destra: invece di puntare a ridurre le disuguaglianze si preferisce cercare di dare le stesse possibilità di partenza a tutti. La chiamano uguaglianza ma è equità. Uguaglianza e equità sono due concetti profondamente diversi e due posizionamenti politici estremamente diversi. Non è un caso che la riforma che ha in testa Draghi renda felici tutti quelli che (soprattutto a destra) insistono in una tassazione flat per tutti, contravvenendo alla progressività fiscale che sta scritta nella Costituzione.
Come scrivono Salvatore Morelli, Economista presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Roma Tre e membro del gruppo di coordinamento del Forum Disuguaglianze e Diversità, e Antonio Scialà, Professore Associato in Scienza delle Finanze presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Roma Tre, su Jacobin Italia: “in questo senso, parlare di «ceti medi», come molti hanno fatto in questi giorni, sarebbe fuorviante: ciò che nel dibattito pubblico si chiama «reddito medio» è in realtà un reddito medio-alto. È bene ricordare, infatti, che è sufficiente guadagnare circa 100.000 euro di reddito per entrare nell’1% della popolazione adulta con redditi Irpef più alti e circa 35.000 euro per entrare nel top 10%. Questa soglia scende fino a circa 30.000 euro al Sud e sale a circa 40.000 euro al Nord. Dunque il taglio delle tasse premierà principalmente i lavoratori dipendenti e pensionati con redditi alti e la riforma avrà delle ripercussioni distributive anche geografiche, nonché tra centro e periferia”.
Un punto è incontrovertibile: questa riforma è un ulteriore erosione della progressività fiscale, come avviene da decenni e basterebbe notare chi ne sorride soddisfatto per comprenderne la natura.