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La chiamano pace, si legge petrolio

Ma dove vanno a finire i soldi per le nostre missioni di guerra che qui tutti si ostinano a chiamare missioni di pace? A mettere il naso tra i costi ci ha pensato Greenpeace che ha pubblicato un rapporto che ancora una volta, accade quasi sempre, dimostra come le azioni siano molto diverse dalle parole a dai buoni propositi che vengono divulgati: il 64% del budget italiano per le missioni militari (circa 797 milioni di euro) è stato speso «per operazioni volte a tutelare la “sicurezza energetica” del Paese» ovvero per tutelare gli interessi fossili inviando militari a proteggere le attività di ricerca, estrazione e importazione di gas e petrolio. La Spagna  ha speso 274 milioni di euro, pari al 26 per cento, la Germania 161 milioni di euro, pari al 20 per cento della sua spesa annuale per le missioni militari. Tutti assieme, nel 2021 i tre Paesi spendono oltre 1,2 miliardi di euro per missioni militari “fossili” – un totale di più di 4 miliardi di euro negli ultimi quattro anni (2018-2021).

Per questo Greenpeace chiede uno stop immediato alla protezione militare degli asset petroliferi e gasiferi. Nell’era della crisi climatica, una tale politica non si limita a dissipare fondi pubblici, ma mette anche a repentaglio la salute umana, perché sostiene il consumo di risorse che rappresentano un reale pericolo per il pianeta.

Per il 2021, l’Italia ha approvato 40 missioni militari per una spesa di circa 1,2 miliardi di euro. Il fulcro dell’impegno tricolore è il cosiddetto “Mediterraneo allargato”, con il maggior dispiegamento in Iraq e Libia, due Paesi che insieme garantiscono circa un terzo delle importazioni petrolifere italiane. Malgrado i gravi scontri, l’anno scorso Eni ha estratto 61 milioni di barili di petrolio equivalente dai giacimenti libici. Lo stretto legame tra il dispiegamento militare e gli interessi dell’azienda è particolarmente evidente nel caso della missione “Mare sicuro”: anche se il nome potrebbe evocare il salvataggio dei migranti, la prima “attività” ufficiale dell’operazione è la «sorveglianza e protezione delle piattaforme dell’Eni ubicate nelle acque internazionali prospicienti la costa libica». La relazione governativa precisa che la missione «assicura con continuità la sorveglianza e la protezione militare alle piattaforme dislocate nelle acque internazionali antistanti le coste libiche, la protezione al traffico mercantile nazionale operante in area». Tra i compiti della missione, anche quelli connessi alla controversa missione a supporto della Guardia costiera libica, che ogni anno suscita proteste fuori e dentro il Parlamento, ma poi viene immancabilmente approvata. Audito in Parlamento, il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha confermato che “Mare Sicuro” è un dispositivo «a protezione degli interessi nazionali nell’area». “Interessi” che la bozza di discorso inviata ai giornalisti dettagliava in nota: «Impianti petroliferi, traffico mercantile, attività di pesca».

Tra le nuove missioni militari del 2020, il governo ha inserito l’impiego di «un dispositivo aeronavale nazionale per attività di presenza, sorveglianza e sicurezza nel Golfo di Guinea». L’operazione, in seguito chiamata Gabinia, è stata confermata anche per il 2021, con un impegno finanziario più che raddoppiato (da 9,8 milioni di euro a 23,3 milioni). Malgrado le acque in questione siano infestate dai pirati, il primo compito della missione è «proteggere gli asset estrattivi di Eni, operando in acque internazionali». La necessità di difendere il naviglio mercantile nazionale dagli attacchi dei pirati compare solo al secondo posto. Come precisato da un dossier del Senato, Eni ha piattaforme offshore in Nigeria e in Ghana.

Come scrive Greepace poi non è necessario scomodare i cospirazionisti per collegare l’intervento italiano in Iraq al petrolio. A sancire inequivocabilmente quel legame è stato lo stesso ministro della Difesa illustrando le missioni militari alle commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato: «Il crollo dell’Iraq, dal punto di vista securitario, avrebbe il potenziale di coinvolgere e travolgere l’intero Medio Oriente», spiegava Guerini nel giugno 2020. «Per l’Italia, questo scenario metterebbe a repentaglio la nostra sicurezza energetica essendo l’Iraq, infatti, il nostro primo fornitore di greggio, rappresentando quindi – in termini “geo-energetici” – un partner di strategica importanza per i nostri approvvigionamenti. In tal senso, la nostra significativa presenza militare si traduce anche quale elemento fondamentale di una strategia di avvicinamento tra Roma e Baghdad volta a stabilire solide e più profonde relazioni in tutti gli ambiti». Anche nel 2021, il ministro ha presentato l’impegno italiano in Iraq con argomentazioni esplicitamente energetiche: «Nel quadrante mediorientale è confermato il nostro impegno in Iraq, Paese di elevata priorità strategica, sia sul piano degli equilibri regionali, sia a tutela dei nostri interessi nazionali, a partire dal tema prioritario degli approvvigionamenti energetici». La stessa relazione governativa, trasmessa alle Camere nel luglio 2021, considera l’instabilità politica dell’area mediorientale «una fonte di criticità per l’Italia in materia di sicurezza, di flussi migratori e politica energetica, che identifica Libia, Iraq e Penisola Arabica quali punti cardine per la sicurezza dei nostri approvvigionamenti».

Per quanto riguarda il Mediterraneo orientale anche quest’anno Guerini ha ribadito l’importanza energetica del Mediterraneo orientale: «Il Mare Nostrum è oggi protagonista di un processo di territorializzazione mirato ad acquisire il controllo delle cospicue risorse energetiche presenti, attraverso una competizione sempre più accesa tra attori regionali e potenze esterne». In questa competizione l’Italia intende avere un ruolo: come annunciato già nel 2020, «al fine di assicurare una maggiore presenza, sono già state previste, nell’ambito di operazioni in corso ed esercitazioni già programmate, periodiche elongazioni nell’area da parte di assetti nazionali marittimi».

Sommando tutte le missioni “fossili” citate, si arriva a circa 749 milioni di euro nel 2021, 523 nel 2020, 489 nel 2019 e 529 nel 2018, pari al 64% della spesa totale per le missioni militari del 2021, al 50% per il 2020, al 47,6% per il 2019 e al 51% per il 2018. A queste cifre va aggiunta la quota parte dei costi di supporto per le operazioni militari italiane all’estero, registrate alla voce «stipulazione dei contratti di assicurazione del personale, trasporto del personale, dei mezzi e dei materiali e realizzazione di infrastrutture e lavori connessi con le esigenze organizzative e di sicurezza dei contingenti militari nelle aree in cui si svolgono le missioni internazionali» (pari a 76 milioni di euro l’anno). Si può quindi concludere che le missioni a protezione delle fonti fossili siano costate alle casse italiane circa 797 milioni di euro per il 2021, 560 per il 2020, 525 per il 2019 e a 568 per il 2018.

Petrolio e armi, il binomio perfetto. Bella questa transizione ecologica e questo impegno per la pace, vero?

Buon venerdì.

Nella foto: piattaforma Eni in Ghana, 28 novembre 2017

 

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