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Cartabellotta a TPI: “Con Omicron il ‘rischio ragionato’ non funziona più. Il governo riveda i parametri”

Perfino membri dell’OMS ieri hanno chiarito ai Paesi che no, che la variante Omicron non è un raffreddore. Eppure la suggestiva narrazione della “raffredorizzazione” è molto in voga e molto utile per appannare il default dei servizi sanitari territoriali. Ne abbiamo parlato con Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe che dall’inizio della pandemia analizza i dati e le evidenze scientifiche.

Quindi è solo un raffreddore? Va tutto bene e siamo noi che creiamo falsi allarmi?
Il virus del raffreddore ha un R0 inferiore a 2, mentre la variante omicron intorno a 7-8. Il raffreddore ha un tasso di letalità inferiore allo 0.04%, la COVID-19 intorno all’1%. Direi che il caso è chiuso. Tuttavia, dati preliminari raccolti in vari paesi (Regno Unito, Sudafrica, Australia, Canada) dimostrano che il rischio di ospedalizzazione nelle persone infette dalla variante omicron si riduce di circa il 30-40%. Ma se una malattia meno severa è sempre un vantaggio per il singolo individuo, la contagiosità molto elevata è un problema enorme per la risposta dei servizi sanitari. E i numeri parlano chiaro: il 27 dicembre avevamo 537.504 attualmente positivi, il 3 gennaio 1.125.052, ovvero in 7 giorni i contagi sono aumentati di oltre il 109%. Nello stesso periodo i posti letto occupati in area medica sono aumentati da 9.723 a 12.333 (+26,8%) e quelli in terapia intensiva da 1.126 a 1.351 (+20%), ovvero lo scudo della vaccinazione e, in particolare della terza dose, riducono nettamente la probabilità di malattia grave e “ammortizzano” l’impatto sugli ospedali. Ma con una media di 110 mila nuovi casi al giorno i 2 milioni di positivi, con il relativo sovraccarico ospedaliero, sono dietro l’angolo.

A cosa torna utile una narrazione così tranquillizzante da apparire scollegata dalla realtà?
Bisogna chiederlo a chi la racconta… Durante una pandemia trasferire i risultati della ricerca di base, o di quella clinica preliminare, alla gestione dei servizi sanitari è avventuroso e pericoloso perché abbassa il livello di attenzione della popolazione e convince la politica a sottovalutare i rischi. È evidente che i servizi sanitari territoriali sono già in tilt (tamponi, tracciamento, etc) e che la saturazione negli ospedali, seppur più lenta e silenziosa, rispetto alle ondate dell’era pre-vaccinale, rischia di mandare in zona arancione varie regioni entro qualche settimana. A tal proposito utile ribadire che le percentuali di occupazione in area medica e in terapia intensiva rappresentano un’unità di misura ormai anacronistica per almeno tre fattori. Innanzitutto, le Regioni possono aumentare la disponibilità dei posti letto, in particolare in area medica, per abbassare il tasso di occupazione. In secondo luogo, la “cannibalizzazione” dei posti letto riduce l’offerta sanitaria a pazienti non COVID e ritarda prestazioni essenziali. Infine, professionisti e operatori sanitari sono ormai allo stremo.

Le misure adottate fin ad ora dal Governo sono misure più economiche o sanitarie?
Il “rischio ragionato” che ha portato alle riaperture irreversibili ha funzionato benissimo da aprile a metà ottobre per la progressiva copertura vaccinale della popolazione e il declino dell’efficacia del vaccino non ancora evidente durante la favorevole stagione estiva. Poi è arrivato l’inverno, la certezza di dover somministrare il richiamo a tutta la popolazione e, soprattutto, il virus più contagioso della storia: una congiuntura astrale che impone al Governo di rivedere i parametri del “rischio ragionato”. Purtroppo, la somministrazione delle terze dosi è partita un po’ in ritardo, rispetto al via libera di metà settembre e, di fatto, il “cambio di passo” si è visto solo a metà novembre. Anche perché nel frattempo molte Regioni avevano chiuso diversi hub vaccinali e, più in generale, rallentato la “macchina organizzativa” che aveva permesso di superare 3,5 milioni di somministrazioni giornaliere. Con la progressiva estensione del green pass e la successiva istituzione del green pass rafforzato si è cercato di convincere gli indecisi a vaccinarsi, ma con risultati modesti, visto che ancora – fatta eccezione per la fascia 5-11 – oltre 5 milioni di persone non hanno fatto nemmeno una dose di vaccino. In tal senso, è mancata, a parte alcune eccezioni, una strategia di comunicazione e persuasione individuale per aiutare le persone a superare la paura di vaccinarsi.

Cosa si dovrebbe fare (per l’ennesima volta) che non è stato fatto?
Cose non fattibili nel breve-medio periodo perché richiedono programmazione strategica, allocazione di risorse, e anche coraggiose riforme sanitarie. Dall’emanazione di norme per standardizzare i sistemi di aerazione e ventilazione nelle scuole e nei luoghi pubblici al chiuso al rinforzo del personale dei servizi di sanità pubblica; dal potenziamento e riorganizzazione dei servizi sanitari territoriali, in particolare attraverso una profonda revisione del ruolo del medico di famiglia, alla gestione dei dati della pandemia e delle vaccinazioni in maniera open e interoperabile.

Non ha la sensazione che si faccia di tutto per prevedere un obbligo vaccinale “di sponda” senza avere il coraggio di imporlo con chiarezza?
Il green pass rafforzato è un obbligo vaccinale di fatto. Ma stiamo pagando cara la mancanza di coraggio, perché adesso, con le imminenti elezioni del Presidente della Repubblica, temo che il tempo per istituire l’obbligo sia scaduto.

Come si rientrerà (se si rientrerà) a scuola e sul lavoro? Cosa ne pensa delle parole di Brunetta e di chi assicura la scuola in presenza?
Questo lo deciderà il Consiglio dei Ministri. Io posso solo ribadire tre cose. Innanzitutto, con gli attuali tempi di raddoppiamento dei contagi le decisioni politiche non possono essere subordinate all’andamento dei numeri, peraltro già ampiamente prevedibili, ma devono essere molto più tempestive di quanto fatto in passato. In secondo luogo, ci stiamo rapidamente avvicinando ad una pericolosa condizione di sovraccarico dei servizi ospedalieri. Infine, rispetto a scuola e lavoro, bisogna fare delle scelte: sia perché omicron non consente di tenere tutto aperto, sia perché “sperare, non è una strategia” (T. Ryan Gregory)

L’articolo originale scritto per TPI è qui