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A proposito di sanzioni alla Russia e di aziende italiane

Come va con le sanzioni alla Russia Lo spiega bene l’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) che prova a fare chiarezza in mezzo a molta retorica. Partendo dal presupposto che le sanzioni sono una delle vie alternative al conflitto armato, si può registrare che, come spiega Ispi, «dopo 7 settimane di guerra, invece, solo il 19% degli Stati del mondo ha deciso di rispondere all’invasione dell’Ucraina imponendo sanzioni economiche alla Russia. Certo, questi Paesi rappresentano una grande fetta dell’economia mondiale (il 59%), e molti di loro costituiscono partner economici imprescindibili per Mosca. Tuttavia l’assenza di una condanna unanime lascia alla Russia la possibilità di espandere le proprie relazioni commerciali con i Paesi che non hanno aderito alle sanzioni». Quando vi capita di sentire “tutto il mondo condanna” ecco no, le cose non stanno proprio così.

Come si legge nell’articolo di Ispi «in mancanza di sanzioni secondarie (cioè quelle sanzioni che colpirebbero proprio i Paesi che, non sanzionando la Russia, decidessero di fare affari con essa nei settori colpiti da sanzioni altrui), al Cremlino rimane infatti un margine di manovra considerevole, che rappresenta il restante 41% dell’economia mondiale. E così i prodotti russi, pur colpiti, talvolta cambiano semplicemente acquirente. Ad esempio il greggio, che fino all’anno scorso era per circa la metà acquistato dall’Occidente (49% Ue, 3% Stati Uniti), viene oggi almeno parzialmente dirottato verso India e Cina».

E le aziende italiane? Scrive Ispi che «per quanto riguarda la presenza di imprese private estere in Russia, nessun Paese al mondo ha posto divieti stringenti. Un’impresa che lascia la Russia lo fa dunque per motivi politici o morali, e non legali. Malgrado ciò, il clima di indignazione per l’invasione russa ha già spinto quasi 500 imprese straniere a ritirarsi, annunciare il proprio ritiro o a sospendere le proprie operazioni in Russia. Si tratta di circa due terzi (il 63%) del totale delle 773 imprese censite a oggi dalla Yale School of Management. Va tuttavia notato che oltre un terzo di loro ha deciso di rimanere (17%), prendere tempo prima di una decisione (12%) o di ridurre soltanto la propria attività (8%). Inoltre, tra le imprese che hanno preso provvedimenti drastici circa la metà ha solo sospeso la produzione, tenendo dunque un piede in Russia in attesa di tempi migliori per riprendere le stesse attività a oggi messe in standby. Colpisce in particolare la scomposizione geografica delle aziende che decidono di restare. Dal grafico si nota infatti come le imprese cinesi abbiano deciso in tre casi su quattro di rimanere in Russia, magari anche allo scopo di approfittare della dipartita delle imprese occidentali (si pensi per esempio al ritiro di Apple ma alla mancata uscita di Huawei). Dall’altra parte dello spettro ci sono invece le imprese di quei Paesi che più di tutti hanno deciso di mandare un segnale netto a Mosca, come quelle canadesi, britanniche o americane. Sorprende che, in questa classifica “negativa”, la Francia (68%) e l’Italia (64%) si trovino sul podio con percentuali di “non disimpegno” dalla Russia molto vicine a quelle cinesi, e nettamente più elevate rispetto a quelle tedesche (46%)».

Quali sono le imprese? Restano in Russia: Buzzi Unichem, Calzedonia, Campari, Cremonini Group, De Cecco, Delonghi, Geox, Intesa Sanpaolo, Menarini Group, UniCredit, Zegna Group. Stanno prendendo tempo Barilla e Maire Tecnimont. Riducono operazioni Enel, Ferrero, Pirelli. Sospendono l’attività: Ferrari, Iveco, Leonardo, Moncler, Prada. Si ritirano Assicurazioni Generali, Eni, Ferragamo e Yoox.

Buon martedì.

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